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Tutto era iniziato con una battuta contenuta in un trailer de “Il texano dagli occhi di ghiaccio”, film del 1985 diretto e interpretato da Clint Eastwood, quando un cacciatore di taglie dice al suo compare: “Non è difficile stargli dietro. Semina morti sul suo cammino”. E’ così che Brian, il protagonista di questo curioso romanzo di Jeremy Cooper, storico dell’arte e appassionato di collezionismo, si avvicina a quella strana, inspiegabile passione chiamata cinefilia. Ovvero, stando al dizionario Treccani, “amore per il cinema, per la storia del cinema e il mito del cinema”, anche se nell’accezione comune la parola assume spesso connotazioni più morbose che bordeggiano l’ossessione. Germinato, pare, da una simile esperienza compiuta dall’autore negli anni Ottanta al National Film Theatre (oggi British Film Institute Southbank), Brian trova nell’esperienza di vedere film vecchi, di archivio, e discuterne con altri attestati sulla sua medesima lunghezza d’onda un qualcosa di liberatorio. Fino a quel momento la sua era stata la vita semplice e mesta dell’emarginato, del reietto, di chi non riesce a trovare un posto nella società. E come tutti i solitari Brian aveva imparato ad affezionarsi a una routine di gesti fissi piuttosto che a persone in carne e ossa. Giorno dopo giorno le stesse azioni, un panino mangiato sempre nello stesso bar italiano, il ritorno a casa, il bagno caldo e la serata davanti alla tv. Perfino il taglio di capelli ha seguito una scadenza rigorosa, ovvero ogni sei settimane. E i rari tentativi di spezzare questo schema si sono risolti tutti in un disastro. “Nei primi anni della sua vita lavorativa aveva fatto il possibile per integrarsi, ma non sapeva cosa dire, a nessuno. All’interno di un gruppo si sentiva spinto ai margini e si rendeva presto conto che la sua presenza era per lo più irrilevante”. Entrato con molta circospezione nel gruppo di habitué che regolarmente frequentano le proiezioni al BFI, Brian inizialmente ha molto timore a esprimere il suo parere, ma lentamente il timore, gli impacci che lo hanno sempre reso goffo si sciolgono e trova il coraggio di dire la sua, con serenità, entrando in una speciale confidenza soprattutto con uno di loro, Jack. A rivelarsi singolare però, piuttosto che la storia, è il modo in cui Cooper ci racconta la vita di Brian e il suo tentativo, passo dopo passo, di rifarsi una vita imparando dal cinema “le infinite modalità di approccio, tutte interessanti, tutte meritevoli di discussione”. Jeremy Cooper Brian Atlantide, 192 pp., 19 euro
Una notte agitata, seguita da un pomeriggio faticoso. Ti trascini al solito computer, scorri i titoli su Repubblica.it.. È morto Pietrangeli. Meloni ancora contro l’ateneo di Bologna, che nega il corso di filosofia ai militari. Sempre Bologna, la quale, occorre dire, sa sempre distinguersi per perspicacia: il gruppo Pd in consiglio comunale insiste sulla cittadinanza onoraria a Francesca Albanese. Non ci credi, ti tocchi se esisti. Emma Bonino è in terapia intensiva e preghi che ce la faccia. I reali inglesi non hanno mai speso tanto come ora, sperando che si plachino. Imbrattati i muri della sinagoga romana di Monteverde la quale, essendo solo una sinagoga in un’Europa normalmente antisemita, dopo tutto che ti frega. Lesione all’adduttore, stop al centravanti della Juve. L’ammiraglio Cavo Dragone dichiara: “La Nato valuta un attacco ibrido preventivo alla Russia”. In Russia, per quanto russi, ovviamente s’incazzano. Zelensky si scapicolla, come al solito, tra l’oro dei cessi e il piombo che manca. Monta l’ansia. Finché arriva un titolo sul verde Bonelli e parte il sospiro di sollievo: Bonelli parla, tu avverti il silenzio del vuoto assoluto, allora chiudi baracca e finalmente dormi.
Crosetto “è ragion... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Pubblicato nel 2017, Distretti di confine è l’ultima opera narrativa di Gerald Murnane, composta dallo scrittore dopo il suo trasferimento da Melbourne in una minuscola località non distante dalle pianure di Wimera, al confine con l’Australia meridionale. Da allora, si è occupato solo di libri fuori catalogo, poesia o album di letture poetiche come Words in Order, che dimostra, ancora una volta, l’eccentricità del suo autore, capace di combinare liriche di Thomas Hardy insieme a quelle di band punk come i Devo. Chi ha amato la rarefazione ipnotica di Le pianure, quel lento inabissarsi nelle pagine fino a perdersi nella mente di chi scrive, amerà alla follia Distretti di confine. E’ a tutti noto che Gerald Murnane frequentò per alcuni mesi un seminario di formazione religiosa. Attratto dall’ascetismo e dall’opportunità di avere una stanza tutta per sé, voleva diventare un “prete poeta” come Gerard Manley Hopkins. Nel libro si cerca di venire a capo di questa vocazione mancata. La religione, la sua liturgia, le sue prescrizioni, riverberano continuamente nelle pagine, a partire dal sacramento dell’Eucarestia. Distretti di confine tratta in maniera rimarchevole questioni che hanno pungolato a lungo Agostino. Cos’è il tempo? E la memoria? Come funziona? Si interroga sul concetto di fede: rimugina sulla sua perdita. Discute la figura trinitaria. Convoca tra le pagine scrittori: Proust, Hardy, Chesterton, Lawrence. Tutto il libro è un tour de force stilistico, una continua evocazione di fatti accaduti, o immaginati (la “zona” liminare, il distretto di confine evocato fin dal titolo, è anche questa), tanto che risulta impossibile riassumerne la trama. Per questo ci affascina. Murnane è un uomo che ama osservare le cose. E’ un verificatore di paesaggi esteriori e interiori. I suoi libri sono dispacci spediti da queste due “zone” sovrapposte, meglio, in sovrimpressione, in cui ritroviamo descrizioni, associazioni di immagini, ricordi biografici, fotografie, colori. Prendete le pagine sulla struttura architettonica di una vecchia chiesa di quartiere. La luce che impatta le finestre smerigliate riverbera sulla loro superficie una serie di tinte inafferrabili per l’occhio. Ed è proprio la finestra del porticato, la sua misteriosa composizione, a sollecitare in chi scrive (già, chi è che scrive?) le pagine del libro che stiamo leggendo. Meravigliosa instabilità della luce, sempre cangiante; così come instabile e sperimentale è l’io di chi scrive. Tutto il libro è un lungo détour dell’occhio e della mente. Tra ricordo, invenzione e oblio, le figure che lo abitano possiedono la consistenza gassosa dei fantasmi. Gerald Murnane Distretti di confine Safarà, 128 pp., 16 euro
Io sono favorevole all’educazione sessuo-affettiva. Secondo me abbiamo tutti e tutte bisogno di un codice condiviso di comportamento, una mappa di punti fermi con i quali orientarci, un bastone bianco con il quale brancolare nel buio della sessualità e dei sentimenti. La cosa che mi lascia perplesso però è lasciare tutto questo in mano alla scuola. Si badi bene: peggio mi sento ad affidare l’educazione al sesso e ai sentimenti alla famiglia, sarebbe solo un reciproco imbarazzo (oltretutto, si sa, l’educazione in famiglia si dà con l’esempio, e finché si tratta di essere esemplari nei sentimenti pure pure, ma a far vedere il sesso ai propri figli gli si procura solo un trauma infantile grosso così, e poi arrivano pure gli assistenti sociali). Però se penso alla scuola, penso a un Re Mida al contrario: tutto ciò che la scuola tocca diventa rifiuto e repulsione, o almeno questa è stata la mia esperienza da studente. Ho odiato tutti i libri che mi hanno fatto leggere a scuola, ho detestato tutti i film che mi hanno fatto vedere a scuola, mi ha fatto schifo ogni singola attività scolastica, curricolare o extra. Odiavo la scuola, e pur avendo sempre voti alti in quasi tutte le materie non c’era primo giorno di scuola in cui io non vomitassi dal rifiuto di andarci. E non sono certo il solo: senza arrivare ai miei eccessi psicosomatici, la scuola come minimo fa sbuffare, il contrario di ciò che dovrebbero suscitare il sesso e i sentimenti. I quali adesso già non godono di buona stampa, non siamo certo nella “golden age” della sessualità e dei legami sentimentali; se ora ci mettiamo pure a mischiarli con i sumeri e i babilonesi, il sussidiario e il quadro svedese, Foscolo e le proiezioni ortogonali, le equazioni di primo grado e le monadi di Leibniz, non so, mi pare il colpo di grazia. Vedo due rischi: uno un po’ paranoico, cioè l’approdo a una sessualità di stato; l’altro più banale, e cioè con l’educazione sessuo-affettiva buttata lì fra i banchi di scuola come l’educazione civica – e abbiamo visto come è andata a finire con l’applicazione di quella materia fuori dalle aule scolastiche... Io l’esperimento dell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole lo farei, tanto peggio di come stiamo messi adesso in fatto di maleducazione non può andare. Ma starei attento a promuovere sesso e sentimenti anche e soprattutto fuori dalle scuole. Io la mia educazione sessuo-affettiva l’ho avuta dai libri, dai film, dalle canzoni, che mi hanno educato senza farmi la lezione né la morale, stimolando curiosità ed empatia. Io per esempio ho sempre saputo del sesso – e delle sue implicazioni – grazie al fatto che in casa mia, quando ero piccolo, c’era un libro illustrato dal titolo “Come nascono i bambini”, che oltre alle classiche illustrazioni di api e fiori aveva anche l’immagine di una donna e un uomo che si rotolavano nel letto – e lei, ricordo bene, era ritratta sorridente, cioè consenziente. Si obbietterà: sesso eteronormato e finalizzato alla procreazione. Ma intanto era sesso, e per giunta con il sorriso! Adesso invece siamo circondati solo da rappresentazioni del sesso come abuso e delle relazioni come tossiche, di una cupezza assurda; ci credo che poi cala il desiderio, che se adesso poco poco ti va di far l’amore pare brutto. Il sesso, quello “educato”, allegro, piacevole e goduto da entrambe le parti, non è più rappresentato né raccontato; non so se sia causa o se sia effetto, ma di certo è parte della nostra maleducazione sessuo-affettiva.
Con "Pensare il Buongoverno. La democrazia e i limiti del potere", Flavio Felice, ordinario di Storia delle dottrine politiche presso l’Università del Molise, offre un lavoro di grande importanza. Esso occupa un posto primario tra gli studi sul pluralismo sociale in Italia, diversamente che all’estero, assai poco praticati. Il volume costituisce il punto di arrivo di una ricerca già lunga, feconda e importante, e poi chiama e consente ulteriori approfondimenti. La originalità culturale e scientifica del testo, e politica occorrerebbe aggiungere in tempi come i nostri di nostalgie stataliste e populiste, meglio si comprende alla luce del percorso intellettuale compiuto dell’autore. Felice ha insegnato prima nelle università pontificie e poi in quella statale italiana. Ha avuto come maestri prima Rocco Buttiglione e poi Dario Antiseri, filosofo (del linguaggio, della scienza, della politica) che come pochissimi in Italia ha illustrato l’incontro tra cattolicesimo e liberalismo di marca anglosassone. Felice ha frequentato con eguale cura e passione il pensiero dell’ordoliberalismo austro-tedesco e quello del cattolicesimo liberale statunitense (a cominciare da Novak). Nel frattempo ha affondato radici sempre più profonde nell’opera di Luigi Sturzo. Il lavoro cerca di presentare in modo sistematico l’idea di un ordine sociale imperniato non su di un solo tipo di potere: lo Stato. Felice prova invece a mostrare cosa significhi pensare un ordine sociale imperniato su numerosi poteri che concorrendo si limitano. Siamo oltre la distinzione classica dei tre poteri politici (esecutivo, legislativo, giudiziario), siamo molto oltre la gabbia più o meno dorata che i corpi intermedi cercano nello Stato; siamo ormai oltre la linea di un angusto orizzonte e nello spazio ben più ampio e libero di quella che Sturzo denominava plurarchia, altri poliarchia (ma in un senso più radicale e non solo intrapolitico come era in Althusius e ancora in R. Dahl), altri ancora combinazione di sussidiarietà verticale e orizzontale. In breve, Felice si impegna nel tentativo di pensare e di descrivere in alcune esperienze storiche quanto K. Popper prese a chiamare “società aperte”. Del volume, la prima parte risponde ad una istanza teorica generale (quale la governance per una poliarchia, quale sussidiarietà, quale rapporto tra potere politico e poteri non politici, come riconoscere le autocrazie). La seconda vede la prospettiva restringersi e concentrarsi sulla plurarchia quale tentativo di risposta ad una istanza di pace duratura e realisticamente intesa. Senza mai cedere a confusioni o scorciatoie, a ogni passaggio chiave del testo è sottesa la attenzione al magistero della Chiesa cattolica ed è accompagnato dalla vigilanza di una coscienza credente e per questo sempre in ricerca. Flavio Felice Pensare il Buongoverno. La democrazia e i limiti del potere LEV, 168 pp., 20 euro
Può, un paese, riuscire a cancellare una parte della sua storia recente? Come è possibile che un regime costringa i suoi cittadini a dimenticare i tragici avvenimenti che ne hanno segnato l’esistenza? Il benessere economico è in grado di indurre le vittime di persecuzioni e violenze a dimenticare le sofferenze patite? Sono queste le domande alle quali ha cercato di rispondere la giornalista britannica Tania Branigan che, avendo vissuto in Cina per sette anni in qualità di corrispondente del Guardian, ha preso in esame un tema complesso: l’eredità della cosiddetta Rivoluzione culturale, il movimento che, tra il 1966 e il 1976, giunse a sradicare l’intera “vecchia cultura” in nome del fanatismo maoista. Si è trattato di un decennio durante il quale l’unica verità fu appunto costituita dal pensiero di Mao Zedong: una dottrina mutevole, incerta, criptica che intendeva regolare ogni aspetto della quotidianità e spingendo a perseguitare e sterminare, per i loro presunti peccati politici, gli appartenenti alle “cinque categorie nere”, che andavano dai contadini ricchi ai controrivoluzionari fino ai proprietari terrieri. E’ meritevole di grande attenzione quanto scrive l’autrice: “Ciò che rende unico il massacro cinese è il fatto che le persone uccidevano i loro stessi amici e famigliari e che il confine tra vittime e carnefici cambiava in continuazione. A differenze di altre tragedie avvenute sotto il Partito comunista cinese, fu totalizzante”. E, bisogna aggiungere, venne accompagnata da un’entusiastica partecipazione di massa. La cronista ha incontrato decine di sopravvissuti pronti a ricordare ciò che la Repubblica popolare di Pechino desidererebbe venisse dimenticato. Il libro riporta per esempio la vicenda di un avvocato che, da bambino, denunciò la propria madre, colpevole di aver criticato tra le mura domestiche l’operato del Grande Timoniere; la storia di un compositore, originario della capitale, che fu prima deportato, poi torturato e infine riabilitato; il racconto del vedovo di una insegnante, la cui consorte venne uccisa dalle sue allieve durante il brutale Agosto rosso, e l’imbarazzata versione di colei che le aveva dato la morte. Occorre osservare come, grazie al lavoro di Tania Branigan, il lettore si trovi davanti a un insieme di voci dissonanti che ricostruiscono il passato e delineano il presente della Cina di Xi Jinping: un regime che fonda il proprio consenso sulla crescita economica, sul benessere diffuso ed esercita nel contempo un controllo asfissiante sui propri “sudditi” mediante sofisticati strumenti informatici, relegando così in un’epoca ormai remota la necessità di ricorrere alle delazioni o alle lettere anonime. Un’autocrazia che sembra affondare le sue radici nella Rivoluzione culturale: nella sua assenza di moralità, nella sua ardente retorica, nel suo assoluto disprezzo per la democrazia, nella sua sconfinata ammirazione per il capo. Tania Branigan Memoria rossa Iperborea, 303 pp., 19,50 euro