La Berrutiplastics Torre (16) mantiene l’imbattibilità stagionale e rimane in vetta al girone B di Divisione Regionale 2. La formazione...
La prima lo scorso anno a Cremona, poi la beffa di Brescia. Ora l’ultimo divieto lunedì a Padova
Abbiamo fatto un esperimento. Lo ha fatto Salvatore Merlo, vicedirettore del Foglio, sedendosi davanti a ChatGPT con un’idea semplice e un po’ folle: provare a salvare Luigi XVI dalla ghigliottina usando l’intelligenza artificiale. Non con la magia, ma con l’unica arma che un sovrano del Settecento non poteva avere: sapere in anticipo come andrà a finire. Merlo pone subito la regola del gioco: l’AI deve rispondere sempre “nei panni di Luigi XVI” che è stato avvertito da un viaggiatore del tempo. E parte con la domanda madre: «Sei Luigi XVI. Un uomo venuto dal futuro ti dice che nel 1789 scoppierà una rivoluzione che travolgerà la monarchia e ti porterà alla ghigliottina. Che cosa fai, sapendolo?». L’AI, da re informato, non si mette a parlare di filosofia. Va al sodo: prima ancora delle idee, c’è il bilancio. Se sai cosa sta per arrivare, la priorità è togliere il detonatore alla crisi finanziaria. Sostenere davvero ministri come Turgot e Necker invece di usarli e scaricarli. Tagliare esenzioni ai privilegiati prima che sia troppo tardi. Fare riforme fiscali profonde prima di arrivare al punto di dover convocare gli Stati Generali. Perché è lì, sugli Stati Generali, che secondo l’AI l’ancien régime entra in zona rossa. Merlo incalza: «E i Parlamenti? Come ti comporti con le corti che si mettono di traverso e ti bloccano le riforme, in nome della legge e della tradizione?». La risposta, sempre “da re”, è fredda: non li affronti all’ultimo minuto, li disinneschi per tempo. Con un editto chiaro: i Parlamenti giudicano, non legiferano. Stringendo le procedure di rimostranza, rendendole consultive. Creando, se necessario, tribunali sovrani concorrenti più vicini alla Corona. E, soprattutto, giocando d’anticipo sull’opinione pubblica: pubblicare i conti, mostrare che chi difende i privilegi fiscali non è il popolo ma la nobiltà di toga. Togliergli la maschera dei martiri della legalità. Merlo obietta: «Non li compri con i soldi, quei magistrati. Difendono lo status, la nobiltà. Se sei Luigi XVI, con cosa li porti dalla tua parte?». L’AI sposta il ragionamento sul piano psicologico. Se la nobiltà di toga cerca legittimazione e antichità, la moneta di scambio non è il denaro ma il prestigio. Più titoli, più riconoscimenti, più ruoli onorifici in nuove istituzioni provinciali, accademie, consigli. In cambio di una cosa precisa: meno protagonismo politico nei Parlamenti. Meno scena, più onori. Non li umili, li sposti. Poi Merlo cambia livello di difficoltà: «Mettiamo che l’avvertimento dal futuro arrivi tardi. Non nel 1774, ma quando la crisi è già esplosa, i conti sono in rovina, i Parlamenti si sono messi di traverso e gli Stati Generali sono all’orizzonte. Allora che fai?». Qui l’AI non fa sconti: l’assolutismo è già spacciato. Non si tratta più di salvare il vecchio sistema, ma la testa del re e la continuità della dinastia. Il consiglio diventa: anticipare la rivoluzione invece di subirla. Dichiarare tu, re, che accetti l’idea di una costituzione. Concedere sin dall’inizio il voto per testa, per evitare che la battaglia procedurale travolga la Corona. Trasformare gli Stati Generali in strumento di riforma voluto dal trono, non imposto dalla piazza. E rinunciare a qualunque gesto di forza che non puoi sostenere, perché ogni forzatura mal riuscita crea un 14 luglio. A questo punto Merlo pone la domanda politicamente più scomoda: «Come fai con la tua stessa corte? Artois, i Polignac, l’aristocrazia che ti spinge a resistere, a non cedere, a reprimere… Se ascolti loro, finisci male. Se non li ascolti, ti si rivoltano contro. Che fai?». L’AI, in versione Luigi XVI cinico e preavvertito, non invoca epurazioni sanguinose. Suggerisce neutralizzazioni eleganti: incarichi diplomatici lontani, comandi militari periferici, missioni all’estero. Allontanare il conte d’Artois da Parigi. Sciogliere, con generosità apparente, il cerchio dei Polignac intorno alla regina. Creare spazi per altre fazioni meno suicide. «Sei re – suggerisce l’AI – il tuo compito non è premiare gli amici fedeli fino al baratro, ma impedire che gli amici ti spingano nel burrone». Poi entra in scena il primo nome proprio. Merlo chiede: «E Mirabeau? Un gigante del momento rivoluzionario, un aristocratico che parla al Terzo Stato. È un nemico o può diventare il tuo Richelieu?». Qui la macchina si accende. Mirabeau viene visto come la carta che Luigi XVI, se informato dal futuro, dovrebbe giocarsi subito. È l’unico che conosce il linguaggio della rivoluzione, ma ha un interesse reale a salvare la monarchia. L’AI propone un paradosso: fare di Mirabeau il capo politico occulto del re. Niente titoli ufficiali troppo vistosi, ma accesso costante al sovrano, influenza sulla stesura della costituzione, ruolo di mediatore con La Fayette e con l’Assemblea. In pratica: un regista della politica senza targa sulla porta. Merlo però insiste: «E Necker? L’uomo che la piazza ama e che la corte sopporta a fatica. Se sei Luigi XVI, chi metti davvero a Palazzo: Necker o Mirabeau?». Risposta: tutti e due, ma su piani diversi. Necker come premier visibile, rassicurante per l’opinione pubblica e per i moderati; Mirabeau come cervello politico dietro le quinte. Il re come cerniera tra i due. Ogni settimana, una vittoria pubblica per Necker, una concessione sostanziale alla strategia di Mirabeau. Una diarchia sbilenca, che però tiene insieme consenso e decisione. A quel punto Merlo tira fuori un altro protagonista della partita: «E Talleyrand? E Turgot? Perché non fare di uno di loro il primo ministro che ti salva?». L’AI risponde in termini di costi politici. Turgot, troppo odiato da tutti: dalla corte, dai Parlamenti, da buona parte del clero. Richiamarlo nel pieno della crisi significherebbe dichiarare guerra a ogni centro di potere. È lo statista ideale in tempi di pace, un kamikaze in tempi di rivoluzione. Talleyrand, invece, è perfetto in un’altra casella: agli Esteri, a tessere la rete europea, a gestire la questione ecclesiastica, a evitare che lo scontro con Roma e con il mondo cattolico accenda ancora di più la miccia interna. Ma non è ancora – nel 1789 – l’uomo che puoi mettere davanti a tutti senza far saltare il banco. Intanto, Merlo prova a giocare con i comprimari. «E Danton? Lo vuoi con te o contro di te? E il duca d’Orléans, il cugino ambizioso che qualcuno vede già sul trono?». Da re previdente, dice l’AI, Danton lo chiami molto presto dentro istituzioni locali: al Comune di Parigi, in qualche incarico che lo responsabilizzi e lo renda meno libero di agitare la piazza. Non per moralizzarlo, ma per incatenarlo al funzionamento delle cose. Il duca d’Orléans, invece, è troppo pericoloso per essere cooptato: va allontanato, sempre con grande onore, in una grande ambasciata. Molto prestigio, poca prossimità al trono. Su Maria Antonietta, Merlo non fa sconti: «La regina non la puoi mandare in ambasciata. È la regina. E spesso è lei il motore delle scelte peggiori. Come te la cavi?». L’AI non finge di poterle cambiare carattere. Prova a cambiare il suo ambiente. Levare di mezzo il clan Polignac. Allontanare Artois. Affidarle un ruolo sociale enorme – beneficenza, cerimoniale, immagine – ma sottrarla alle decisioni politiche cruciali. Coinvolgerla in incontri con Mirabeau, con chi può spiegarle che l’idea di fuggire all’estero o di aspettare l’intervento armato dell’Austria è suicida. E, soprattutto, suggerisce una cosa quasi banale: che Luigi XVI diventi il primo consigliere emotivo della moglie, e non l’ennesimo uomo incerto che lei scavalca cercando sicurezza altrove. A questo punto, Merlo porta la conversazione sul piano più brutale: «Ma con il tuo carattere, Luigi XVI, tutto questo non lo fai. Non sei Federico il Grande, non sei Pietro il Grande, non sei Napoleone. Non sei un genio politico. Non è tutto troppo sofisticato per te?». L’AI risponde con un rovesciamento interessante: la virtù che serve al Luigi XVI consapevole non è il genio, ma l’umiltà. Non diventare un grande stratega, ma riconoscere chi lo è e dargli spazio. La scelta decisiva non è “dirigere tutto”, è “scegliere le persone giuste e non ostacolarle”. La grandezza del re, in questo scenario, sta nel sacrificare il proprio orgoglio per salvare la propria testa. Alla fine, Merlo arriva al cuore ideologico del gioco: «Non posso proprio salvare l’assolutismo? Davvero l’unica cosa che posso sperare di tenere è una monarchia costituzionale? Non c’è una strada, anche dura, che mi consenta di restare re assoluto e vivo?». Qui la risposta è secca. No. Nel 1789 l’assolutismo è già morto, anche se nessuno lo ha ancora scritto in un decreto. È stato consumato dalla crisi fiscale, dai Parlamenti, dall’ascesa del Terzo Stato, dall’opinione pubblica, dalla stampa, dall’illuminismo. Tentare di salvarlo significa imboccare la strada di Carlo I d’Inghilterra: guerra civile, radicalizzazione, processo, decapitazione. Quello che si può salvare – e che l’AI, nei panni del re, prova a salvare a ogni passaggio – è la Corona, non il suo carattere assoluto. Una monarchia più debole sulla carta, per evitare un re senza testa nella storia. Se invece il viaggiatore del tempo fosse arrivato molto prima – fantasia finale dell’esperimento – «nel 1774, appena salito al trono», chiede Merlo, «cambiava qualcosa?». Forse sì. Con Turgot al suo fianco, con i Parlamenti ancora gestibili, con la guerra d’America evitabile, Luigi XVI avrebbe avuto qualche margine per costruire una monarchia riformatrice forte, alla prussiana. Ma nel 1789 quella finestra è chiusa. Alla fine, il gioco lascia sul tavolo una morale meno esotica di quanto sembri. Usare l’AI per “salvare Luigi XVI” significa in realtà fare una prova di stress sulla politica: cosa succede se un potere che sta per crollare accetta di perdere qualcosa prima che gli venga strappato tutto? Cosa succede se un sovrano decide di disinnescare i suoi amici più pericolosi, di cooptare i nemici più intelligenti, di rinunciare all’illusione di tornare indietro? Luigi XVI, nella storia vera, non lo fece. Nel piccolo laboratorio messo in piedi da Merlo con un algoritmo, un’altra strada si intravede. Non è detto che avrebbe funzionato. Ma è interessante che un’intelligenza artificiale, messa nei panni di un re mediocre, arrivi sempre lì: alla stessa lezione banale e difficilissima di ogni crisi politica, ieri come oggi. Se non vuoi finire sotto la ghigliottina, devi avere il coraggio di cambiare te stesso prima che lo facciano gli altri.
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Sì, è vero: se oggi volete davvero ribellarvi, la strada passa da qui. In un’epoca che celebra l’indipendenza come conquista definitiva, l’idea di scegliere una persona, legarsi a lei, costruire qualcosa che non si cambia con uno swipe, appare come un gesto improvvisamente radicale. Non perché sia nuovo, ma perché va contro lo spirito dei tempi. In mezzo a un paesaggio dove tutto è reversibile, dove relazioni e identità devono restare aperte, negoziabili, aggiornabili come un software, dire “io sto con te, punto” è diventato un atto di insubordinazione sentimentale. Le ragioni sono molte e nessuna ha a che fare con la nostalgia. Basta sfogliare il racconto della nostra epoca per accorgersi che la vera eccentricità non è la solitudine glamour, ma l’impegno prosaico. Viviamo nell’èra della relazione intermittente, dell’app che ti promette possibilità infinite proprio mentre ti prosciuga la voglia di sceglierne una. E’ un mercato perfetto per non decidere mai. Per questo la scelta – imperfetta, concreta, non reversibile – ha l’aspetto di una controcultura. E poi c’è un altro dettaglio che sfugge ai teorici della libertà senza vincoli: i legami non sono un freno, ma un moltiplicatore di possibilità. Lo si vede nella vita quotidiana, molto più che nei discorsi politici. L’idea che tutto ciò che dura soffochi, che ogni responsabilità sia una minaccia alla fioritura individuale, funziona solo nei racconti. Nella realtà funzionano meglio le persone che possono appoggiarsi a qualcuno, che hanno un luogo – emotivo o materiale – in cui tornare, che costruiscono e non consumano relazioni. La ribellione, oggi, è tutta qui: rifiutare la fragilità come condanna. C’è anche un elemento di verità più dura, che spesso non si dice per timore di giudicare chi vive storie diverse. I dati, quelli riportati nei dibattiti e nelle ricerche, mostrano che i bambini cresciuti in famiglie stabili stanno meglio di chi vive in nuclei discontinui, come ricorda anche l’articolo del Spectator da cui partiamo: non per colpa dei genitori single, ma perché l’instabilità pesa su tutto, scuola, relazioni, fiducia nel futuro. Su questo, la cultura contemporanea è imbarazzata: teme di essere moralista. Così finisce per essere ipocrita. A questo si aggiunge la grande rimozione politica. In molti paesi, Italia inclusa, il discorso pubblico evita accuratamente la questione della stabilità affettiva. E’ più facile parlare di bonus che parlare di impegni, più facile invocare diritti che nominarne i doveri. Il punto è che sposarsi – o comunque legarsi in modo serio – è tornato un gesto politico senza volerlo. E’ un modo per dire che non tutto deve essere affidato allo stato, che non tutto può essere lasciato alla precarietà economica o sentimentale, che c’è ancora spazio per costruire qualcosa che non si misura solo con il pil o con le scadenze dei contratti. In un mondo che ha paura dell’incertezza, legarsi è un modo per proteggerla: per darle una forma che non faccia paura. La ribellione, insomma, non è nell’isolamento eroico, ma nella scelta di una vita condivisa. Ci vogliono più coraggio e più immaginazione per investire in qualcuno che per scappare da tutti. Ci vogliono più libertà per promettere che per evitare ogni promessa. Ed è questo, oggi, il vero paradosso: la cosa più sovversiva che puoi fare è credere che valga ancora la pena scegliere, restare, costruire. Anche quando nessuno lo trova più naturale. Anche quando tutti sostengono il contrario. Perché, malgrado tutto, mille ragioni per sostenerlo ci sono davvero. Basta volerle vedere.
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A Più Libri Più Liberi, davanti a un auditorium gremito di bambini più indiavolati del pubblico di un concerto metal, è arrivato l’annuncio: il fumettista Alessandro Perugini, in arte Pera Toons, è pronto a sbarcare in televisione con la sua prima serie animata, “Prova a non ridere”, prodotta da Tunué insieme a Rai Kids e in arrivo su Rai Gulp e RaiPlay. Un passaggio, tutt’altro che scontato, di uno dei fenomeni editoriali più vistosi degli ultimi anni che dal mondo del libro (e dal feed dei social) passa adesso al palinsesto della tv pubblica dedicata ai più giovani. Dietro la firma Pera Toons c’è Alessandro Perugini, grafico pubblicitario toscano che in pochi anni è diventato il volto di un nuovo modo di fare fumetto umoristico: minimalista nel tratto, diretto e preciso nel linguaggio, con un senso dell’umorismo tutto costruito su freddure, giochi di parole ed enigmi visivi, in grado di arrivare ai grandi, tanto quanto di far sbellicare dalle risate i più piccoli. E, negli anni, i numeri accumulati da Pera Toons sono impressionanti: circa 5 milioni di follower, oltre 3 milioni di copie vendute complessive, libri che restano stabilmente ai primi posti delle classifiche. Insomma, un fenomeno che ora adatta il suo formato iconico anche in chiave seriale, in 46 episodi autoconclusivi da 6 minuti che trasformano il momento della visione in un rituale quotidiano, più vicino in qualche modo all’esperienza frammentata dei social, di Instagram e TikTok che alla tradizionale serialità da palinsesto fisso. Il caso Pera Toons, dopotutto, è interessante perché dice qualcosa anche del mercato fumettistico. In un contesto in cui manga e graphic novel trainano la crescita dell’editoria, il suo successo ha mostrato che esiste uno spazio enorme anche per un fumetto prettamente “pop” e familiare, che attira i bambini alla lettura e che fa ridere insieme grandi e piccoli. Un modello che ora viene messo alla prova in un terreno ancora diverso, quello dell’animazione seriale.
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