"Il diniego consapevole e volontario ha negato la posizione personale di 147 persone. Anche per queste persone ci accingiamo a chiedere la condanna dell'imputato oltre che per difendere i confini del diritto. Per questo chiediamo la condanna a 6 anni di reclusione". E' questa la richiesta di condanna per il ministro Matteo Salvini formulata dalla procuratrice aggiunta di Palermo, Marzia Sabella, in chiusura della requisitoria del processo Open Arms, che si è tenuta oggi nell'aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. Il leader della Lega e attuale vicepremier, oggi assente in aula, è imputato per sequestro di persona e rifiuto d'atti d'ufficio per aver ritardato lo sbarco di 147 migranti a bordo della nave della ong Open Arms nell'agosto del 2019, quanto ricopriva la carica di ministro dell'Interno con il governo Conte I. Il presidente della II sezione penale ha rinviato il processo al 20 settembre, quando prenderanno la parola le parti civili. Il 18 ottobre è prevista l'arringa della difesa di Salvini. "È incredibile che un ministro della Repubblica Italiana rischi 6 anni di carcere per aver svolto il proprio lavoro difendendo i confini della Nazione, così come richiesto dal mandato ricevuto dai cittadini", ha commentato a stretto giro la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni in un post su X. "Trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani dall’immigrazione illegale è un precedente gravissimo. La mia totale solidarietà al ministro Salvini", ha concluso. "Pensiamo che il dibattimento abbia dimostrato che almeno dal 14 agosto 2019 sussisteva il chiaro e preciso obbligo del ministro italiano e di nessun altro di rilasciare il Pos", ovvero l'indicazione di un luogo sicuro per le operazioni di salvataggio, ha spiegato la procuratrice Sabella nella requisitoria. "Tale Pos – ha continuato – doveva essere rilasciato senza indugio, non un'ora dopo rispetto al momento in cui era stato richiesto; che il diniego avvenne in intenzionale e consapevole spregio delle regole; che l'intenzionale e consapevole spregio delle regole non avvenne per ragioni di natura preventiva o repressiva, né nella tutela dello stesso migrante ristretto, né per altro bene tutelato dall'ordinamento giuridico; che l'intenzionale e consapevole spregio delle regole non avvenne nel tentativo di proseguire un disegno politico governativo, magari con qualche forzatura giuridica non giusta ma quantomeno tendente alla giustizia. Che dunque il diniego consapevole e volontario ha leso la libertà personale di 147 persone per nessuna, ma proprio per nessuna, apprezzabile ragione".
Da quando gli Stati Uniti hanno ottenuto l’indipendenza da re Giorgio possiamo contare oltre duecento membri del Congresso, otto giudici della Corte suprema e tre segretari di stato di religione o ... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Ero lì, di fronte al Palazzo del Cinema, per cui ho visto, ma soprattutto ho provato sulla mia pelle, che cosa può accadere quando in un festival di celebrità ordinarie, acerbe, mediocri, dimezzate... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
In un momento in cui l’antisemitismo torna ad affacciarsi nei paesi occidentali ... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Una distesa infinita di ombrelli bianchi e gialli a riparare una spianata di seicentomila fedeli giunti a Taci Tolu per assistere alla messa celebrata dal Papa. Poco meno di un terzo della popolazi... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Sembrerebbe una storia tutta al femminile Paradise Garden di Elena Fischer (Gramma Feltrinelli). Non solo perché la madre della protagonista, Billie, muore alla prima riga del romanzo e si capisce subito che il libro ruoterà intorno a questa scomparsa, traumatica e imprevista, ma anche perché Billie ha 14 anni, è una bambina sulla soglia dell’età adulta e il giorno in cui sua madre muore – come in un passaggio di consegne – le viene per la prima volta il ciclo. Marika, la mamma single di Billie, è poco borghese, colorata, sboccata e anticonformista. E Billie l’adora. L’esistenza delle due donne, il loro rapporto quasi simbiotico, viene però travolto dall’arrivo dall’Ungheria di un’altra donna, la nonna, bigotta e dispotica. Billie e Marika non la sopportano. E infatti tutto precipita. Una storia che parla di donne, madri e figlie, che ci racconta come ci si ama e come ci si odia, come si tenta di sopravvivere alla morte di una madre amatissima e come si prova a scappare da una madre oppressiva e ingombrante. Tanto più che per due terzi del romanzo di uomini se ne vedono pochi. Tuttavia io credo che questa autrice esordiente originaria della Germania abbia scritto un libro centrato sulla paternità, non solo perchè la morte della madre costringe Billie a fare i conti con quel buco nella sua biografia, ma anche perchè il motore della storia diventa la ricerca di quest’uomo. E quando il personaggio maschile arriva ci racconta qualcosa di interessante e non banale sulla paternità. Che cos’è un padre? Quello che ci ha concepito assieme a nostra madre o uno che semplicemente dice: ci sono, non scappo, resto qui. Questo sembra dire questo puzzle, in cui tutti i pezzi sono scombinati e un po’ alla volta, attraverso le parole, si rimettono a posto. L’altro aspetto interessante del romanzo risiede nel parlare di povertà urbana. Billie e Marika vivono in un appartamento di un caseggiato in una periferia, un palazzo squallido da dove si vede e si sente costantemente l’autostrada, dove vivono persone emarginate. La scrittrice però di ferma sulla soglia di questa possibilità. Marika e Billie, quando lo stipendio a fine mese è finito, mangiano allegramente spaghetti con il ketchup, quando sognano una vacanza al mare, che non si possono permettere, si consolano in bikini sul ballatoio, quando l’ascensore è rotto fanno diciassette piani a piedi pensando che in fondo è “come andare in palestra”, quando finisce la scuola per festeggiare non partono per le vacanze, ma si accontentano di una coppa di gelato: la Paradise Garden che dà il titolo al libro. Anche i vicini sono strambi, ma mai sgradevoli. L’ “arabo” Ahmed “profuma di narghilè” e Luna, nata da una donna “trovata un giorno con una siringa sul braccio”, è però “capacissima di rimuovere completamente quello che la preoccupava”. Vite ai margini, sul filo della sopravvivenza, ma dove le torte sono “di colori pastello e sempre un po’ troppo dolci”. Ad esempio Marika è costretta ad avere due lavori per mantenere la figlia, di giorno fa le pulizie in un palazzo e di sera infila “jeans attillati e stivali da cowboy bianchi” per fare la cameriera in un bar. Ma non sclera come faremmo noi. No, lei ride, salta nelle pozzanghere, dice parolacce tutta vestita di pailettes. È la madre che tutte avremmo voluto, tranne quelle che l’hanno avuta veramente e ne erano imbarazzate a morte. Perché la non convenzionalità e le difficoltà economiche dei genitori sono divertenti solo se chi li descrive non li ha mai provati, se li romanticizza, edulcorando il conflitto, ma anche perdendo l’occasione di raccontare l’imbarazzo, il dolore e la vergogna, senza i quali si rischia di fermarsi a una superficie graziosa, come il nome di una coppa gelato.
È possibile, ma bisogna dirlo sottovoce, che nella prossima manovra di bilancio il governo trovi qualche soldo in più da spendere, per arricchire la sua offerta. Quando arriva una manovra, si sa, gli appetiti aumentano, le marchette fioccano, le corporazioni si impongono e quando i soldi sono pochi è difficile utilizzarli per indicare una direzione netta, per fare una scelta di campo, per provare a mostrare i muscoli e il coraggio su un tema invece che su un altro. Quello che state leggendo è un estratto dalla newsletter del direttore Claudio Cerasa, La Situa. Potete iscrivervi qui, è semplice, è gratis Dunque, la domanda è lecita: dovesse esserci qualche soldino in più ricavato da un extragettito fiscale, dovesse esserci un qualche soldino in più ricavato da un'azione di revisione della spesa, il governo avrebbe o no il coraggio di destinare quei soldi non alle marchette del presente ma alla costruzione del futuro? Il ministro Giancarlo Giorgetti, rullo di tamburi, un'idea ce l'ha: utilizzare sei miliardi di euro, non bruscolini, per dare più soldi alle famiglie che fanno figli. Come? Alleggerendo il carico fiscale. In che modo? Aumentando le detrazioni a chi fa figli. Motivo? Leggere i dati Istat, ancora una volta. Primo: nell’ipotesi più sfavorevole, la popolazione italiana sarà 52,7 milioni nel 2050 e 39,3 milioni nel 2080. Significa un terzo in meno rispetto agli attuali 59 milioni. Secondo: dal 2023 al 2080, l’Italia perderà circa 13 milioni di abitanti (-22 per cento): tra un quarto e un quinto della popolazione. Ovvio: parlare di demografia parlando solo di natalità non funziona, è sbagliato, è una scappatoia. Ma se nella prossima legge di bilancio il governo dovesse inserire nuove norme per aumentare il numero di migranti da far arrivare in Italia (decreto flussi) e più soldi alle famiglie che fanno figli (detrazioni) si potrebbe dire che tra le marchette e il futuro la scelta per una volta sarebbe più sulla seconda opzione che la prima. Coraggio.
Bastano una ventina di minuti per ritrovarsi dall’aeroporto Sondika, progettato da Santiago Calatrava, sul ponte di La Salve che si apre su Bilbao, abbracciando e sovrastando il Museo Guggenheim, simbolo della città. Fu Frank Gehry a progettarlo e a volerlo in quella parte settentrionale dopo aver osservato il panorama del monte Artxanda. Quell’avveniristica costruzione è lì dal 1997 con una struttura esterna scolpita e pareti a dir poco particolari, perché cambiano colore nelle diverse ore del giorno. Nell’insieme, a seconda del punto di osservazione e della propria immaginazione, può assomigliare a un fiore, a una nave o a un pesce senza pinne. È in pietra calcarea, vetro e titanio e non in acciaio inossidabile, perché – come ci ha spiegato l’archistar, oggi ultra novantenne, durante la festa per il venticinquennale – “l’acciaio non somiglia al cielo di Bilbao”. Avvicinandovi all’edificio in stile decostruttivista, noterete che una parte di esso è sormontata da un ponte e che all’interno non esiste una sola superficie completamente piana. Il progetto di Gehry, sicuramente audace per l’epoca, non fu affatto una bizzarra astrazione, ma un’idea ben precisa che tenne conto del contesto storico e geografico della città. Fondamentali sono le finestre la cui forma è totalmente razionale, in contrapposizione all’aspetto esterno delle facciate, inserite in una serie di blocchi rettangolari che contrastano con la parte del museo, quella più famosa, fatta di curve metalliche e di spirali immense. Il gigantesco Puppy di Jeff Koons all’esterno, accoglie i visitatori con i suoi quasi tredici metri di altezza, riempiti da piante e fiori, e fa un certo effetto pensare che un tempo, lì, al suo posto, nel quartiere Indautxu, c’erano centinaia di container arrugginiti. Dentro il museo c’è un bookshop degno di lode, ma soprattutto opere della collezione permanente come il labirinto in ferro di Richard Serra (The Matter of time), le grandi e iconiche tele di Rothko e Basquiat, il paesaggio marino di Gerhard Richter e nove colonne a luci LED su cui vengono proiettate frasi e frammenti di testo che sembrano voler raggiungere il cielo, opera di Jenny Holzer. Sonnenschiff, la scultura di Anselm Kiefer, raffigura i devastanti effetti dei bombardamenti aerei della Seconda Guerra Mondiale sulla campagna tedesca. Un invito a non dimenticare, che è poi quello che ci ribadisce anche l’artista giapponese Yoshimoto Nara. Classe 1959, nato a Hirosaki, nella prefettura rurale Aomori a Tokyo, è protagonista della retrospettiva che gli dedica il Guggenheim di Bilbao (a cura di Lucía Agirre, fino al 3 novembre) con cui vengono ripercorsi i suoi 40 anni di carriera. Quei bambini da lui ritratti con gli occhi molto grandi (impossibile non pensare a Margareth D.H.Keane), sono il suo alter ego, una maniera per far rivivere ricordi, esperienze ed emozioni iniziate nella sua stanzetta che lì è riprodotta in formato naturale (My Drawing Room 2008), ma soprattutto il modo per affrontare riflessioni filosofiche e altri argomenti attuali (con Stop the bomb e No War invita alla pace) usando un linguaggio semplice, diretto e assolutamente condivisibile.
Come leggiamo Leopardi? Presentando il suo film a Venezia, Sergio Rubini ci ha tenuto a dire che non è un Leopardi depresso, bensì vivace e spiritoso. Ancora più rivoluzionario sarebbe stato presentare un Leopardi che non fosse poeta. Noi associamo infatti Leopardi alla scuola: è l’autore che si manda(va) a memoria alle elementari, del quale si fa la parafrasi alle medie, e al quale il manuale delle superiori dedica centocinquanta pagine. Nessun poeta accompagna con la stessa costanza la formazione degli italiani. Intanto, nella stessa scuola ma dopo il cambio d’ora, si consuma un paradosso: Leopardi è il più grande filosofo italiano ma non viene incluso nei programmi di filosofia. Sorte condivisa con Machiavelli e Gramsci, favorita forse dalla vertigine filologica (con vette fondamentali come l’edizione Gavazzeni dei Canti, Rizzoli, 800 pp., € 11,5 euro); unita alla passione degli italiani per le parole che suonano bene, e alla volgarizzazione della distinzione crociana fra poesia e non poesia, ha fatto sì che l’immane produzione filosofica di Leopardi sia spesso considerata sfondo di quella poetica, iceberg che serve a far emergere la punta, commento ai versi fornito dall’autore stesso a mo’ di libretto delle istruzioni. Si pone perciò la questione editoriale di come leggere Leopardi: un’opera come lo Zibaldone, incompiuta e interminabile, meriterebbe la stessa diffusione dei Pensieri di Pascal, che addirittura supera per mole e varietà. Io ho escogitato due metodi, entrambi imperfetti e sindacabili. A casa tengo a portata di mano lo Zibaldone Newton Compton (1145 pp., € 14,9), compatto e fitto come una Bibbia, che invita all’apertura casuale onde lasciarsi investire da un lampo di intelligenza, come se si tirassero le sortes leopardianae. In biblioteca leggo da un capo all’altro i singoli volumi dell’edizione tematica Donzelli a cura di Fabiana Cacciapuoti (nel 2023 è uscito l’ultimo, 830 pp., €50 euro), che ordina i quattromilacinquecento appunti secondo gli argomenti. E’ un modo come un altro per continuare a rendersi conto che Leopardi è stato un grande filosofo, che ha scritto anche delle poesie. Alcune bellissime.
La Filosofia dello Spirito è spiritosa? Dovrebbe esserlo, se si risolve nel concreto. E lo è appunto dove deride i filosofi astratti o puri, che giudica puri asini. Confermano lo “spirito” i “Venticinque aneddoti crociani” stampati ora da Babbomorto, e pubblicati per la prima volta nel settantesimo compleanno di Benedetto Croce. Era il 1936, anno di grande consenso del regime. Il filosofo di Palazzo Filomarino costituiva allora una specie di governo ombra o Vaticano laico. E in questa veste appare anche qui. Sa di dover calibrare con attenzione ogni attacco, e non solo a causa della situazione politica: “La critica è un fucile molto bello: deve sparare raramente!” dice in un aneddoto a chi lo sprona a stroncare un gentiliano già stroncato. Dalla filosofia si passa poi al boccaccesco con Witz: “Lo stesso idealista attuale (…) considera l’economica come il Male. / Ciò suggerisce al Croce l’avvicinamento a quella monaca, di cui parla Balzac: la quale riteneva peccato il soddisfare necessità digerenti, ma, non potendo farne a meno, sospirava: ‘Signore, a Voi l’offro!’”. Il teorico che insegue distinzioni e purezze estetiche è nei fatti severo anche con i “puri esteti”; e l’erudito, ospitato nella villa di un bibliofilo, ha nostalgia dei poveri banchetti di libri napoletani: la troppa bellezza lo stucca. Per lui i libri non sono alibi oziosi ma strumenti per pensare. Nella postfazione, Massimo Gatta osserva che sia il filosofo sia le bibliografie dei suoi scritti tacciono sul volume aneddotico. Viene da sospettare che Croce vi vedesse un omaggio un po’ eccessivo, stilisticamente poco crociano. In ogni caso, assai somigliante appare qui la sua maschera: un po’ da Goethe, un po’ da principe umanista, un po’ da motteggiatore avvezzo alla cruda vitalità napoletana non meno che alle categorie tedesche. È il pensatore a cui piace mostrare che le analisi più sottili sono traducibili in un motto di buon senso, ma che non sa abbandonare il mito della Filosofia maiuscola. Questo suo equilibrio indispone tanti giovani cresciuti accanto a lui e divenuti eretici. Croce li punisce, ma non ama nemmeno i discepoli canini: come approvare chi perde il senso delle proporzioni nel seguire i consigli di un maestro che è tutto proporzione? Il fatto è che Croce vuole una corte, ma vuole anche dei veri interlocutori; così come, contraddittoriamente, vuole la Realpolitik ma anche l’etica liberale. In apparenza, sulla Realpolitik se la cava bene. A un pubblicista professore in America (Prezzolini?), il quale gli rinfaccia di aver contribuito a creare, con la sua idea di politica come forza amorale, il regime fascista a cui ora si oppone “per sentimento, non per logica”, il filosofo risponde che “è come dire che un fisico Galileo, che stabilisce la legge della caduta dei gravi per la linea verticale, dia il cattivo consiglio alla gente di gettarsi dalla finestra e cadere come un grave per la linea verticale”. Ma questo Croce convince poco: sia perché crocianamente non funziona il confronto tra le scienze dure e quelle dello spirito, sia perché lo sviluppo del suo pensiero è un po’ diverso. Come il libretto stesso testimonia, davanti alle offese personali gli è facile alzare le spalle, ma quando si tratta di difendere la sua coerenza filosofica diventa tirannico. Gli aneddoti iniziano con uno sfottò contro Borgese: che proprio allora, esule negli Stati Uniti, ricordava a sua volta come l’ex maestro avesse cambiato idea sulla politica senza però ammettere l’errore, e quindi diminuendo la sua credibilità. Uno come Croce, quando sa di avere sbagliato, ha una tentazione che oggi noi ci godiamo anche irritati: cavarsela con una battuta lasciata cadere dall’alto. Atteggiamento comunque migliore della damnatio memoriae a cui nel secondo Novecento lo condannarono i puri filosofi, cioè i puri asini.
La legge, e soprattutto la giustizia, non c’entrano niente con l’amore. L’amore non è giusto, e non sopporta le regole. E’ per questo che ci rende felici. E’ nelle ultime pagine della storia di Fosco e Alice. Hanno un figlio grande, sono sull’orlo del divorzio, anzi sono già più avanti: il ricorso è già depositato in Tribunale. Quattro paginette al cianuro che Alice ha affidato a un’avvocata veloce e dai colpi secchi. Leggono gli atti del processo e invece di dirsi firmiamo, scoprono che non è finita. Risentimento: è così che sai che dovresti insistere, almeno a voler capire qualcosa. E’ tardi, quindi, ma decidono di prendere altro tempo. Per provare a cercare l’errore - se ti fai abbastanza domande, l’errore lo trovi, si dicono. Domande, di quello è fatto ogni addio, punti interrogativi a perdita d’occhio. E le risposte a “perché è finita?” non possono che essere impossibili, e diversissime. Nel nuovo romanzo di Diego De Silva, I Titoli di coda di una vita insieme (Einaudi), Fosco è uno scrittore e Alice è un medico. Chissà perché leggo e li immagino come gli amanti, alla fine sposati, della Terapia di Coppia. Fosco e Alice decidono che non c’è un modo giusto per lasciarsi, ma un posto giusto sì: la casa di campagna dove Fosco ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza. E lì si raccontano le due storie che conoscono, e che non sono le quattro pagine di spigoli delle carte presentate al giudice perché omologhi l’addio - il divorzio, l’epitaffio senza sentimenti dell’amore, il certificato che con le faccende economiche siamo a posto, con il calendario dei figli anche e ognuno vada a fare quel che vuole. La fine degli amori è una specie di gioco delle stanze. Dopo quella dell’analista, quella del giudice. Alla fine l’ultima stanza, la cancelleria del tribunale. L’obitorio. La sentenza timbrata è l’atto di morte. E gli avvocati sono i poco allegri ciambellani della farsa, archivisti degli epiloghi, la burocrazia dell’addio. «Io vorrei isolare il momento in cui ho visto la crepa e ho preso atto della fine, ma non lo trovo, perché non c’è». Le verità frantumate di De Silva, tagliate apposta a doppia lama, lo stesso garbo per farti ridere e piangere, vengono fuori dalla pagina quasi prima di leggerle, non c’è bisogno di posarci gli occhi sopra. Le divide in due, le coppie che non funzionano. E quindi tutte le coppie: ci sono quelli che stanno insieme a stento, senza sapere come, e quelli che non riescono a lasciarsi. Resistere (in nome di cosa?) o non resistere, questo sarebbe l’unico dilemma. Che è quello che decide per te la direzione di tutta la vita. Ogni matrimonio inizia da un amore felice, o qualcosa che sembra avere le forze per durare. Poi bisogna trovare il modo di far quadrare le tare in quel malloppo di abitudini, quell’ignorarsi e starsi accanto in differenti misure che è l’amore di chi si conosce da anni. Meritarsi di meglio, sì, ma cosa? Si potrebbe restare, quindi? E quanto a lungo? Quanto può durare un essere umano privato di amorosi sensi? E’ un’anestesia, a un certo punto, l’amore, o è normale non provarlo più? Ci sono le nuove sistemazioni - amore in assenza della pulsione del desiderio. E Fosco pensa che basti diventare come Cristina e Innocenzo, seduti sui gradini di casa, al paese. Lei sbuccia un pezzo di mela per lui, e gli tocca un braccio. “Ho sempre pensato che fosse quello il modo di amarsi, dopo tanti anni”. Alice no, quegli scontenti non vuole tenerseli, il minimo etico del sentimento è da pezzenti, meglio niente. Non ci si doveva ridurre a due vecchi amici. Mezze misure non ce ne sono, come non ci sono motivi, un bel colpevole che risolverebbe molto del problema di non volersi più. Non c’è un “sei stato tu”, quando finisce l’amore. E De Silva ha una specialità: ti racconta l’assenza di risposte meglio di chiunque altro.
Sull’asse Milano-Torino ha sempre brillato la punta di diamante dell’industria italiana. Negli anni Settanta, se Torino era la città fabbrica targata Fiat, Milano poteva contare sul prestigio dell’... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Volevano cambiare i connotati all’Italia, intanto hanno cambiato faccia, fisico e postura. Con nevrotica naturalezza sta succedendo così a un po’ tutti i corpi mediali del governo ... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Sono saliti sul podio dieci volte alla Defense Arena di Parigi. Una insieme, nella staffetta 4x100 metri stile libero mista.
Non più tardi di tre anni fa, il calcio turco pareva prossimo al collasso. Al tracollo avevano contribuito diversi fattori: la svalutazione della l... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
La sensazione, osservando i volti e le espressioni dei ragazzi dei primi anni Ottanta, è di persone che si divertivano. Le fotografie di Dino Ignani che compongono la mostra “80’s Dark Rome” rappresentano un pezzo di storia dell’underground capitolino. Si era appena usciti dagli anni Settanta e dagli anni di piombo, all’inizio del nuovo decennio i ragazzi tornano a uscire la sera senza etichette politiche ma individuabili solo in base ai gusti musicali e al modo di abbigliarsi. Ci sono i punk, i rockabilly, i new wave, i metallari, i mods e, appunto, i dark. Che ascoltano gruppi come Cure, Bauhaus, Joy Division, Echo & the Bunnymen, Devo, Siouxsie and the Banshees, per citarne solo alcuni. Sintonizzati mentalmente con tutto quel che accadeva a Londra. Ci si vestiva di nero, ma non solo; si portavano collane con crocifissi; i capelli erano sparati in aria con lacche ma pure con acqua e zucchero; i volti, anche maschili, erano truccati. “Frequentavo una vineria a Trastevere, il Fidelio, che comincia a popolarsi di questi ragazzi. Per me, che avevo militato nel movimento studentesco e vestivo con l’eskimo, scatta subito una grande curiosità verso questi personaggi così originali, ognuno diverso dall’altro: così inizio a seguirli tutte le sere nei loro locali e a fotografarli”, racconta Dino Ignani, che oggi ha 74 anni assai ben portati. Qualcuno fa iniziare la nuova tendenza con il concerto dei Talking Heads al Palaeur nel 1980. Da lì si parte e non ci si ferma più e molto poi confluirà nella fenomenologia disco e house degli anni ’90. Tra i volti si riconoscono quelli, giovanissimi, di Dario Salvatori, Pino Strabioli, Roberto D’Agostino. Uno di loro è venuto alla presentazione, Filippo Maria Ricci, oggi corrispondente da Madrid per la Gazzetta dello Sport. “Sì, quello ero io minorenne. Si impiegava anche un’ora a prepararsi prima di uscire. Ci s’incontrava ogni sera, non come oggi coi i ragazzi che stanno sui social…”, osserva Ricci. “Li seguivo nei locali (Blackout, Supersonico, Uonna Club, Piper), allestivo un set fotografico e facevo uno scatto per ognuno, senza farli mettere in posa, per cogliere il loro stato d’animo. A loro piaceva, si mettevano in fila, sentivano di far parte di qualcosa di nuovo”, spiega Dino Ignani. La prima volta le foto furono esposte nel 1985 a Palazzo Braschi (“Dark Portraits”) e pubblicate su Rockstar. Ora ritornano al Museo di Roma in Trastevere, esposizione curata da Matteo Di Castro, fino al 10 novembre.
L’altra mattina, primo titolo sul web: “Un missile ipersonico partito da Mosca arriverebbe a colpire Milano in 11 minuti”. Federico Rampini, sul Corriere. Conosco a spanne lo stato delle cose. Le batterie schierate a Kaliningrad, e i missili ipersonici cinesi che circumnavigano la Terra a 6.700 all’ora. Con quali testate? Ma no, “a uso civile”, assicurano – vorrei capire quale. Ne ho letto, insomma, qualcosa. Ma gli undici minuti da Mosca a Milano sono un pugno. Giro il pezzo a due figli: “Massì mamma, dai, cose che non possono succedere, siamo nella Nato”, fa il maggiore. Anch’io avrei risposto così, due anni fa. Ora questa certezza la sento scricchiolare sotto ai piedi. Con l’affacciarsi di potenze come la Cina, o l’Iran, con i droni a buon mercato, davvero basta la Nato? Quel titolo mi ha preso male. Mi si riaffacciano in mente frammenti di uno sgradevole sogno, fatto prima dell’invasione russa, quando autorevoli osservatori la dicevano impossibile. Su un tabellone di Risiko vedevo una fila di carriarmatini colorati, graziosi, superare il confine ucraino. Ma, non si fermavano: senza trovare ostacoli traversavano Ungheria, Croazia, fino all’Adriatico. Infine, un flash di un istante: i grattacieli di Milano, i più arditi, con le finestre infrante. Orbite nere sulle strutture annerite dal fuoco. (Quel sogno, non l’avevo raccontato a nessuno). “Ma va’, mamma, siamo nella Nato”. Io ho almeno sentito mio padre raccontare dello sfacelo sul Don; dai nonni ho ascoltato, incredula, delle bombe su Milano. La guerra finì tredici anni prima che io nascessi: nella storia, una manciata di secondi. Mi ha quasi sfiorato. Nei figli la certezza della pace, succhiata con gli omogeneizzati, si è consolidata dentro un’abbondanza mai vista prima, garantita, dovuta, ovvia. E non riescono a vedere che Kyiv è Europa, né avvertono l’odio che cova nel mondo fondamentalista contro il “corrotto occidente”. Ragazzi miei, e i vostri dolcissimi bambini, classe 2023. Undici minuti. Forse è vero l’aforisma di Karl Kraus: “Di ciò di cui non si può parlare, occorre tacere”.
Era il 25 febbraio 2019, e alle ore 21 la Feltrinelli di viale Pasubio era affollata. Il convegno prometteva bene e produsse molti spunti: sul palco Pietro Bussolati, ai tempi segretario metropolit... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
“I danni del turismo di massa sono sotto gli occhi di tutti, basta farsi una passeggiata nelle principali città d’arte: Roma, Firenze, Venezia, per capire che un numero così alto di visitatori non ... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
“Date a un bambino un foglio di carta e dei colori, e chiedetegli di disegnare un’automobile… sicuramente la farà rossa”, diceva Enzo Ferrari. Ma, devo dire, stavolta si sbagliava. Quando N... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Nel cattolicesimo italiano è in corso qualcosa di molto simile a un cambio di paradigma. Prima del giudizio è necessario tentare di comprendere. Si tratta di un cambiamento che in modo nuov... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Come gentrificare, turisticamente parlando, porzioni di paesaggio italiano poco conosciute, fuori dalla rotta delle località sempre citate sui giornali, inadatte all’esecrato overtourism e non frequentate da celebrity da rotocalco? L’intento se lo sono assunto una settantina di primari galleristi italiani che, grazie all’impulso di Lorenzo Fiaschi di Galleria Continua di san Gimignano, danno vita al consorzio Italics. L’obiettivo comune è la valorizzazione dei territori e delle eccellenze del nostro Paese, da raggiungere coinvolgendo istituzioni culturali, musei, fondazioni e, naturalmente, le strutture turistiche. Una volta all’anno Italics organizza Panorama, una mostra diffusa di 4 giorni, tra architetture locali e installazioni di arte antiquaria e contemporanea. Dopo le prime tre edizioni, a Procida, Monopoli e L’Aquila, è appena terminato Panorama 2024, che si è svolto in quattro paesi del Monferrato: Camagna, Vignale, Montemagno e Castagnola. Trasformati da luoghi turisticamente negletti in soggetti di centralità culturale e paesaggistica, grazie alla brillante curatela di Carlo Falciani, storico dell’arte specialista di manierismo toscano e appassionato di contemporaneo. Falciani ha costruito 4 capitoli tematici e geografici sulla traccia del cinquecentesco La “Civil conversazione” di Stefano Guazzo, testo che, sull’onda di quella civiltà della conversazione messa in scena da Baldassarre Castiglione, in 4 volumi teorizza l’importanza del dialogo come motore dello sviluppo etico e sociale. Best seller europeo tradotto in inglese, francese e latino ha suggerito il tema di ognuna delle 4 tappe. A Camagna, Lavoro e radici; a Vignale, Ritratto e identità; a Montemagno Caducità e morte (anche in riferimento al dramma delle morti per amianto dell’Eternit di Casale Monferrato); a Castagnole, Sacralità dell’arte, anche laica. Le opere, tra cui diverse scenografiche installazioni ambientali di grandi dimensioni, dialogavano tra di loro e con le sedi prescelte: il Loggiato del Palazzo Comunale, la via dei Martiri e l’ex Cottolengo di Camagna; Palazzo Callori, il suo teatro e la Chiesa dei Battuti a Vignale; il Castello e i Voltoni della Scalea Barocca a Montemagno; la Chiesa dell’Annunziata, la Casa della Maestra e l’ex Asilo Regina Elena a Castagnole. A chiusura del percorso tra colline, borghi e opere d’arte, una spettacolare installazione nell’Asilo di Castagnole: Passi Ex Asilo Regina Elena, un pavimento di specchi rotti in cui si rifletteva il paesaggio campestre del Monferrato, opera di Alfredo Pirri. Pur senza più le opere di Panorama, l’invito è a replicare il tour nell’armonia di paesaggi e architetture. Grande successo con orde di galleristi e collezionisti e appassionati approdati da tutta Europa, anche grazie alla centralità logistica del Monferrato. Per giunta, la vicinanza a Milano ha conferito un’impronta di inevitabile mondanità alla gita artistica. Indimenticabili anche i sublimi buffet organizzati nella sua dimora di Camagna da Noris Morano, nostra Signora della comunicazione, nonché moglie del re degli antiquari Carlo Orsi, presidente dell’Associazione degli amici di Brera e tra i fondatori di Italics.
La testa di cervo si staglia sul timpano della Basilica di Sant’Eustachio, nella piazza dedicata all’omonimo Santo, proprio dietro il Senato, ed è ... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Nella moda, è ormai evidente che mettersi in mostra non basti. Le presenze degli espositori alle fiere milanesi in via di apertura, pur ragguardevoli, non offrono infatti un quadro oggettiv... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Alcuni mesi fa, sulle colonne di questo giornale, prendeva piede una ... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti