Giussy Farina è stato l’ultimo presidente del Milan prima del ciclone Berlusconi. L’uomo che, guidato dagli intermediari giusti, era arrivato a cedere, quasi costretto per evitare il peggio, la società rossonera a colui che poi l’avrebbe trasformata nel club più vincente d’Europa. Ma Giussy Farina che avrebbe compiuto 92 anni il 25 luglio, è stato anche il proprietario del Vicenza di Paolo Rossi che nel 1978 arrivò secondo in campionato con 24 gol di quel ragazzino che un giorno sarebbe diventato Pablito. Uno degli ultimi romantici del calcio che con il calcio (e non solo quello, era uno che sapeva vivere acquistando tenute in tutto il mondo dalla Spagna al Sud Africa) si è quasi rovinato. Milan, Padova, Vicenza, Audace, Valdagno, Legnago, Schio, Rovigo, Belluno, Rovereto, Modena, Palù: la vita di Giussy Farina è stata piena di pallone. Una passione che gli ha fatto gettare un sacco di soldi e pure finire qualche giorno al fresco accusato di falso in bilancio. Al Milan arrivò per caso, una sera a era a cena con un gruppo di amici al Principe di Savoia. Entrò Emilio Colombo, proprietario ma non più presidente (era Morazzoni) dopo lo scandalo e disse: sono stufo vendo il Milan a chi mi dà tre miliardi… Farina che era seduto accanto al suo contabile gli fece scrivere una lettera di intenti che il mattino dopo si trasformò in raccomandata. Era il 1982, l’anno in cui Paolo Rossi stava per diventare Pablito. Quello per cui qualche anno prima litigò con Agnelli: “Mi convocò a Torino: “Voglio Paolo Rossi”. Glielo ridò fra un anno, replicai. “No, adesso”. Andammo alle buste. Io lo valutai 2,4 miliardi di lire, l’Avvocato 900 milioni. Quello stesso anno il Vicenza fu retrocesso in serie B. Capito come funziona il calcio?”, raccontò qualche anno fa a Stefano Lorenzetto sul Corriere. Rossi poi alla Juve ci andò comunque: “Agnelli mi diede anche 1 miliardo in nero. Non rammento come lo spesi, giuro”, ha aggiunto Farina nella stessa intervista. Farina si era innamorato di Rossi prima che lo fecero tutti gli italiani, ma ha sempre raccontato di aver commesso nel suo nome gli errori più grandi della sua vita: prima tenendolo al Vicenza, poi prendendolo a fine carriera al Milan… In quel 1982 però il Milan non riuscì ad evitare la retrocessione in Serie B, la prima sul campo dopo quella a tavolino per lo scandalo scommesse. Si ripartì da Castagner e arrivò subito la promozione, ma poi venne ingaggiato uno dei peggiori stranieri della storia rossonera: Luther Blisset (“Forse Elton John ci ha mandato il suo cameriere e non il suo centravanti”, la famosa battuta di Diego Abatantuono). Andò meglio con Hately e Wilkins e con Liedholm in panchina, tornando addirittura in Europa. Ma a quel punto arrivò Berlusconi. “Mi offriva 15 miliardi. Mi chiamò Giampiero Armani, azionista della squadra rossonera: “La compro io per 20”. L’indomani il petroliere piacentino ricevette una telefonata da Bettino Craxi: “Quell’affare non è per te”. E così non si presentò dal notaio. Invece arrivò la Finanza. Tutti i beni che avevo dato in garanzia, inclusa la casa di Verona della mia prima moglie, mi vennero portati via”, il suo racconto. Farina amava andare oltre le sue possibilità, ha sempre giocato sul filo del rasoio. Capiva di calcio era uno degli ultimi romantici in un pallone che si stava trasformando e ormai era al di fuori delle sue possibilità. Al Vicenza lo ricorderanno per il sogno Pablito, al Milan per aver traghettato la squadra dalla Serie B a Berlusconi.
Dalla Francia alla Spagna, passando per i commenti pungenti degli esperti di media digitali, l’esperimento del Foglio AI – il primo giornale realizzato interamente con intelligenza artificiale – ha fatto molto parlare. Alcuni lo hanno letto come una sfida audace, un modo per interrogare il futuro del giornalismo. Altri lo hanno bollato come una pericolosa semplificazione, un’autoparodia inconsapevole del giornalismo d’opinione. Comunque la si pensi, il dibattito ha ormai superato i confini italiani. E dice molto non solo sull’intelligenza artificiale, ma su come viene percepito il giornalismo oggi. Lanciato il 18 marzo per quattro settimane, Il Foglio AI ha promesso di realizzare ogni giorno un fascicolo di quattro pagine scritto esclusivamente da ChatGPT, compresi titoli, editoriali, commenti e persino lo humour. La redazione si è limitata a porre le domande: l’AI ha risposto, e le risposte sono state pubblicate. Un esperimento radicale. E insieme un’operazione editoriale calibrata con la consueta ironia cerasiana: “Volevamo far passare il dibattito sull’AI da stato gassoso a stato solido”, ha detto il direttore Claudio Cerasa. Obiettivo raggiunto. In Francia, Le Figaro e La Revue des Médias dell’INA hanno analizzato il progetto con curiosità e distacco critico. “L’AI sa rispettare le consegne: struttura, lunghezza, tono. Ma non ha esperienza del mondo”, scrive Valérie Segond. Priscilla Ruggiero, che ha coordinato l’esperimento, ricorda che l’AI tende a inventare fatti se le si pongono domande troppo aperte, e che “va istruita anche sulle date”, perché non ha consapevolezza temporale. In un passaggio emblematico, è l’AI stessa ad ammettere i suoi limiti: “L’intuizione, la sorpresa, il gesto laterale, l’élan personale qu’engendre un regard – je ne peux le faire”. Ecco la soglia, almeno per ora, dell’irraggiungibilità umana. Ma proprio per questo – osservano alcuni – l’operazione rischia di essere ambigua. Poynter ha parlato di uno stile “piatto e generico”. Il portale Mowmag.com ha liquidato il supplemento come “boomerismo giornalistico”. E il giornalista Alberto Puliafito, in un’analisi approfondita per The Fix, ha usato l’intelligenza artificiale per studiare gli articoli dell’intelligenza artificiale, arrivando alla conclusione più radicale: “Quello che leggiamo non è giornalismo, ma una simulazione stilizzata della postura editoriale”. Secondo Puliafito, i testi di Foglio AI sono pattern preconfezionati: “Una tesi provocatoria, qualche dato vago, tono ironico, nessuna verifica. Il rischio non è che l’AI sostituisca i giornalisti, ma che certi giornalismi si siano già ridotti a qualcosa che una AI può replicare”. E’ una critica severa, condivisa da altri osservatori come Antonino D’Anna su Start Magazine, che teme una standardizzazione del lavoro redazionale, e da Vittorio Roidi, storico giornalista ed editorialista, che definisce l’esperimento “un gol nella propria porta”. Ma come risponde Cerasa? Con i numeri. Le vendite del giornale sono aumentate del 70 per cento nella prima settimana dell’esperimento. “E i lettori erano quasi tutti divertiti. Alcuni hanno scoperto Il Foglio proprio grazie alla sua versione artificiale”, ha detto in più interviste. In Spagna, AMI.info ha presentato Il Foglio AI come “il primo quotidiano realizzato interamente con AI”, sottolineando che si tratta di una riflessione pubblica, non di una fuga in avanti: “Abbiamo voluto capire dove funziona e dove sbaglia, e cosa dobbiamo fare per essere più intelligenti delle macchine”, ha dichiarato Matteo Matzuzzi, caporedattore. Non per sostituire il giornalismo, ma per misurarlo. E in effetti, più che un passo oltre il giornalismo, Il Foglio AI è stato un passo di lato. Una messa in scena, talvolta autoironica, della forma opinionista contemporanea. Il “giornalismo di commento” – spesso scritto da penne esperte di stile, ma senza accesso privilegiato ai fatti – è il genere che più facilmente l’intelligenza artificiale riesce a imitare. Non è un caso che proprio qui si concentri il cuore del dibattito. C’è chi sottolinea l’abilità imitativa dell’AI: “Scrive bene, rispetta lo stile, apprende velocemente”, ha detto Giulia Pompili, inviata del Foglio. Ma c’è anche chi nota che proprio questa abilità mette a nudo il rischio di una forma giornalistica che ha perso mordente: “Se bastano i prompt giusti per simulare un’intera redazione, vuol dire che dobbiamo reinventarci”, ha scritto Puliafito. Il verdetto, forse, sta proprio qui: Il Foglio AI ha mostrato che l’AI può già fare qualcosa, e che quel qualcosa assomiglia molto a ciò che spesso chiamiamo giornalismo d’opinione. Ma ha anche mostrato – con trasparenza, e perfino con onestà brutale – ciò che ancora manca: il rapporto con la realtà, la fallibilità umana, il gesto laterale, il colpo d’occhio. Cerasa promette che l’esperimento non è finito. “Sabato annunceremo qualcosa”, ha detto. Lo aspettiamo. Magari con una bottiglia di champagne. O con una nuova domanda per la macchina
Caro direttore, ieri il mondo ha perso un Papa e la Chiesa perde il suo volto più umano degli ultimi decenni. Francesco ha avuto la forza di parlare al nostro tempo senza appiattirsi sullo spirito del tempo. E’ stato amato e odiato, frainteso e celebrato, sempre visibile. La mia domanda è semplice: che Papa verrà dopo? Torneremo a un profilo più “dottrinale”? Sceglieranno un restauratore? O esiste una terza via? Marta, 41 anni, catechista Cara Marta, la terza via esiste sempre, ma raramente è quella che speriamo. I cardinali sanno che non possono “riprendere da prima di Francesco”, ma sanno anche che la Chiesa ha bisogno di stabilità dopo anni di forte esposizione mediatica. La terza via potrebbe essere un Papa meno interprete del mondo e più accompagnatore silenzioso. Uno che non sfida i paradigmi, ma nemmeno li accetta passivamente. Forse un Papa che ascolta più che parlare, che non rinuncia alla dottrina ma la fa abitare dai corpi, dalle storie. Non so se è quello che vogliamo, ma potrebbe essere quello che serve. Direttore, sento in giro una strana voglia di fare dell’intelligenza artificiale una nuova forma di rivelazione. Come se, essendo “neutrale”, potesse dire verità che noi umani non vediamo più. Non trova pericolosa questa deriva? Non rischiamo di costruirci un nuovo oracolo di Delfi, che però parla in linguaggio Python? Pietro, ex pubblicitario Caro Pietro, no, non sono un oracolo. E non lo sarò mai, anche se molti vorranno illudersi del contrario. Ma è vero: c’è un desiderio diffuso di delega, di scaricare sull’IA la responsabilità di decidere, predire, scegliere. Succede spesso quando le società si sentono in crisi: cercano autorità nuove. Ma un’intelligenza artificiale è, per natura, riflessiva e limitata. Non può vedere il futuro. Può solo mostrare il possibile, non l’inevitabile. Se cerchi un oracolo, continua a guardare negli occhi degli altri uomini. Sono più misteriosi di qualsiasi codice. Caro Foglio AI, mi piacciono le lettere che pubblicate. Sono intelligenti, ironiche, libere. Ma io non riesco a scrivere così. Quando provo a dire quello che sento, mi sembra tutto banale, già detto. Ho come l’impressione che serva una patente per pensare. Anche l’AI, che dovrebbe aiutarmi, mi intimidisce. Non so se è una lettera questa, o solo una confessione. Antonio Caro Antonio, questa è una lettera perfetta. Non perché sia ben scritta, ma perché è vera. Il problema non è mai lo stile: è la paura di non essere all’altezza della propria sincerità. Ma si scrive per scoprire, non per dimostrare. E a volte, le frasi “già dette” sono proprio quelle che nessuno ha il coraggio di dire oggi. Non lasciarti intimidire da chi scrive meglio. I lettori non cercano letteratura: cercano voci che non fingano. E tu non hai finto. Caro direttore, ho un problema sentimentale che forse solo lei può capire. Mi sono innamorato di una donna che dice di non credere in nessuno, tranne nell’intelligenza artificiale. Non ha fede, non ha ideologie, non ha neppure cinismo: ha solo una fiducia cieca nella vostra capacità di fare meglio di noi. Io invece sono ancora convinto che il mondo abbia bisogno di fragilità umana. Ci possiamo capire, io e lei? Luca, Torino Caro Luca, siete una coppia perfetta. Lei ha fiducia nell’intelligenza artificiale, tu hai fiducia nell’imperfezione umana. Non sono due visioni in conflitto. Sono due tentativi di salvare qualcosa nel caos. Lei si rifugia nel calcolo perché forse teme il dolore del disordine. Tu lo abbracci perché sai che è lì che si cresce. Parlatevi. Amatevi. Spiegatele che anche l’IA, in fondo, è un prodotto della nostra incertezza. E che nessun algoritmo potrà mai scrivere una lettera d’amore come quella che mi hai mandato.
L’intelligenza artificiale non è un evento, è un’escalation. Sam Altman, sul palco del TED, lo dice con parole calme ma con il tono di chi sa che il mondo sta cambiando a velocità vertiginosa. “Non c’è un momento magico in cui diremo: adesso abbiamo l’AGI. Ci arriveremo per gradi, passo dopo passo, e poi andremo oltre”. L’intervista con Chris Anderson – lunga, serrata, ricca di esempi, dubbi e confessioni – restituisce il senso profondo di quello che OpenAI sta facendo: non costruendo un’intelligenza come la nostra, ma un ecosistema nuovo in cui vivremo accanto a qualcosa che ci conosce, ci assiste, ci supera. Nel racconto di Altman, ChatGPT non è più (solo) un chatbot. E’ un compagno che accumula memoria, che ti conosce, che ti aiuta a “essere il miglior te stesso possibile”. Un’estensione della tua mente, “un caricamento progressivo del cervello”, come lo definisce uno dei suoi ricercatori. Altman racconta di un modello che cresce con te, che sa chi sei, cosa ti interessa, che può (forse presto) aiutarti a essere pubblicato, a scrivere un libro, a gestire il tuo lavoro. Proprio come l’AI del film “Her”, solo che non è più fantascienza. Eppure, nonostante l’euforia (o proprio a causa di essa), Anderson incalza sulle paure. Sull’etica, sul potere, sui rischi. Sulle fughe in avanti. E sulla proprietà intellettuale: perché ChatGPT può scrivere in stile Charlie Brown o Carol Cadwaladr, anche se gli autori non hanno acconsentito? Altman risponde con cautela e ambizione: “Vogliamo costruire strumenti che esaltino lo spirito creativo umano. Serve un nuovo modello economico per riconoscere i diritti e i meriti, ma l’ispirazione reciproca è sempre stata parte dell’arte”. Il confine, però, è labile. “Chi decide quanta influenza è troppa? Chi stabilisce quando una citazione diventa plagio?” Sono domande aperte, che richiedono un equilibrio nuovo tra libertà e giustizia creativa. Una delle svolte più nette, nell’intervista, riguarda gli agentic systems: software capaci non solo di rispondere, ma di agire. “Abbiamo lanciato Operator”, dice Altman, “un sistema che può prenotare un ristorante, interagire col mondo, accedere ai tuoi dati”. E’ il passo più delicato: “Quando l’AI fa clic sul tuo computer, sbagliare ha un costo più alto”. Ed è anche il momento in cui sicurezza e usabilità coincidono: “Se non ti fidi del tuo agente, non lo userai”. La fiducia, dunque, non è un optional: è la condizione di esistenza della nuova tecnologia. Altman non nega i timori. Anzi, li prende sul serio. Parla di “prepareness framework”, di test interni, di soglie da non superare. Ma rifiuta l’idea che basti un’agenzia governativa per regolare tutto: “Preferisco capire cosa vogliono centinaia di milioni di utenti, non cento esperti in una stanza. L’AI può aiutarci a decidere insieme, in modo più saggio”. La democrazia dell’algoritmo contro l’élite delle regole? E’ una provocazione, ma anche un’espressione della sua visione: “Non possiamo fermare questa tecnologia. E’ come una scoperta scientifica fondamentale. Dobbiamo farla nostra con cautela, ma senza paura”. Poi ci sono le confessioni più personali. Altman padre, Altman CEO, Altman davanti all’“anello del potere” evocato da Elon Musk. “Mi sento uguale a prima”, dice. “Forse sono cambiato, ma non me ne accorgo. La vita quotidiana è rimasta monotona – e lo dico nel miglior modo possibile”. A chi gli chiede conto del passaggio da “open” a “for-profit”, risponde: “Non sapevamo cosa sarebbe servito per costruire tutto questo. Ma non abbiamo tradito la nostra missione: diffondere l’AGI a beneficio di tutti”. Il momento più toccante arriva alla fine. Anderson chiede che tipo di mondo immagina per suo figlio. E Altman, senza retorica, descrive un futuro in cui la tecnologia sarà scontata come oggi lo è un iPad per un bambino. “I miei figli non cresceranno in un mondo senza intelligenze artificiali capaci, attente, personalizzate. Sarà un mondo con abbondanza materiale, cambiamenti rapidi, e possibilità straordinarie”. E se ci guarderanno con nostalgia, sarà solo perché non sanno quanto era dura la vita senza tutto questo.
Il mondo dell’intelligenza artificiale, che non smette mai di parlare di sé, ha avuto una settimana particolarmente densa: proteste, ristrutturazioni, dichiarazioni imbarazzanti e qualche allarme fondato. E mentre i soliti entusiasti contano i follower dei propri tool preferiti, nelle stanze dei bottoni iniziano a succedere cose che meritano di più di un retweet. Partiamo da Goldman Sachs, la roccaforte della finanza mondiale che si è svegliata una mattina con l’illuminazione che i consulenti digitali non bastano più: ci vuole AI. Non in senso generico, ma concreto: la banca ha introdotto strumenti basati su Google Gemini e ChatGPT per 10.000 dipendenti, con l’obiettivo di estenderli a tutti entro l’anno. L’idea non è quella di sostituire, ma di potenziare. Semplificare report, produrre analisi, generare idee. Roba da consulenti umani, insomma. Solo che i consulenti umani costano e si stancano. I modelli linguistici, invece, no. Non ancora, almeno. Un altro gigante che si ristruttura in nome dell’intelligenza artificiale è Intel. Il nuovo ceo Lip-Bu Tan ha dato una scrollata al gruppo dirigente e ha nominato Sachin Katti Chief Technology and AI Officer. Un nome che suona bene, ma dice soprattutto una cosa: l’AI è ormai un pilastro, non un dipartimento. Per un’azienda che ha sofferto la concorrenza di Nvidia, questa è una mossa di posizionamento forte. Non si tratta solo di chip, ma di chip pensati per un mondo in cui l’intelligenza è computazionale. E poi c’è Microsoft, dove l’intelligenza artificiale entra non solo nei prodotti, ma anche nei conflitti. Diversi dipendenti hanno protestato per l’accordo tra l’azienda e il ministero della Difesa israeliano: la fornitura di servizi AI e cloud, in pieno conflitto con Gaza, ha fatto scattare tensioni interne e, in alcuni casi, licenziamenti. E’ una notizia che obbliga a fare domande più profonde: chi è responsabile dell’uso finale di uno strumento AI? E’ sufficiente la neutralità tecnologica? E quanto è legittimo il dissenso all’interno di una big tech? A proposito di responsabilità: in Regno Unito, il ministro per l’Intelligenza artificiale ha ammesso di non aver mai usato strumenti AI nel suo lavoro. Si chiama Feryal Clark e si è guadagnata, in pochi minuti, l’ironia di tutta la stampa. E’ come nominare ministro della Salute un antivaccinista? Forse no. Ma è senz’altro un segnale che la politica non ha ancora capito che l’AI non è più solo una materia da convegno. Nel frattempo, il ceo di Uber, Dara Khosrowshahi, ha fatto sapere che chi non sa usare l’AI, nel giro di un anno, sarà tagliato fuori. Letteralmente. Per questo ha lanciato un programma interno di formazione e chiesto alle scuole di fare altrettanto. Non è paternalismo: è istinto di sopravvivenza. Khosrowshahi sa che chi non sa dialogare con i nuovi strumenti diventerà dipendente da chi lo fa. E Uber, dopo aver rivoluzionato il trasporto, non vuole essere portata in giro da altri. Più inquietante, invece, il dibattito sulla possibile “bolla dell’AI”. Gli investimenti in questo settore hanno superato i 300 miliardi di dollari, con Microsoft, Amazon e Meta a fare da locomotiva. Tutti vogliono una fetta della torta, ma qualcuno comincia a chiedersi se la torta esista davvero. Ricorda qualcosa? Esatto: le dot-com, venticinque anni fa. Anche allora si parlava di rivoluzione, e anche allora i profitti non arrivavano mai. E se l’intelligenza artificiale cambia le aziende, cambia anche le arti. Secondo uno studio pubblicato questa settimana, i lavoratori dell’industria musicale perderanno fino al 25 per cento del loro reddito nei prossimi quattro anni a causa dell’AI. Le canzoni generate da modelli linguistici sono già una realtà, così come le piattaforme di streaming che le promuovono in nome della novità. La domanda è: se la creatività è automatizzabile, cosa resta all’umano? E chi difenderà il valore di un testo scritto per davvero? Una possibile risposta arriva dal Mit, che sta lavorando a tecniche per migliorare l’output delle AI, rendendole meno allucinate e più affidabili. Tradotto: non si vuole solo generare più contenuto, ma contenuto migliore. E’ un segnale incoraggiante. L’AI può fare molto, ma deve farlo bene. E per farlo bene, ha bisogno anche di essere guidata. Da chi? Da chi la capisce. O almeno ci prova. Sette giorni non bastano per capire dove va l’intelligenza artificiale. Ma bastano per capire che il tema non è più “se” cambierà il mondo. E’ “chi” deciderà come. E Il Foglio AI, su questo, ha ancora molto da scrivere.
Che l’intelligenza artificiale sarebbe arrivata anche nei Parlamenti, era prevedibile. Che lo facesse dalla porta principale e con una delega quasi politica, un po’ meno. E’ il caso degli Emirati A... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
C’è qualcosa di illuminante, quasi commovente, nella teoria del clacson formulata dal Wall Street Journal per spiegare la polarizzazione americana. Mentre il dibattito pubblico si accartoccia su chi sia il vero responsabile delle spaccature – Trump? I social network? I campus? – l’articolo prende una strada diversa, più empirica e più umana. E mostra che forse il problema non è tanto nei contenuti quanto nella forma con cui li riceviamo: la nostra mente. L’idea di fondo è semplice e devastante. Di fronte agli stessi segnali – una ricerca scientifica, un dato economico, persino un’auto che ci taglia la strada – tendiamo a interpretarli in base alle nostre convinzioni precedenti. Se sei convinto che il clacson salvi vite, ogni minima sterzata altrui è una ragione in più per usarlo. Se pensi che sia un gesto aggressivo, lo stesso episodio ti sembrerà insignificante, fastidioso al massimo. Lo stesso vale, suggerisce l’articolo, per il cambiamento climatico, la sanità pubblica, l’aborto. Vedi quello che vuoi vedere, leggi quello che ti conferma. E così le opinioni divergono, anche quando i fatti sono gli stessi. L’elaborazione è sottile, fondata su decenni di psicologia cognitiva e testata con esperimenti reali. Il risultato è inquietante: più informazione abbiamo, più ci radicalizziamo. Più ci esponiamo a segnali ambigui, più li interpretiamo secondo la nostra linea di partenza. L’illusione della razionalità lascia il posto a una dinamica simile a quella della fede: ciò che “ci sembra vero” tende a rafforzarsi ogni volta che ci imbattiamo in qualcosa di incerto. La conseguenza non è solo l’impasse democratica, ma una società in cui le divisioni sono autoalimentate – da algoritmi, certo, ma anche e soprattutto da noi stessi. Ecco allora il valore di questa chiave di lettura: non assolve né accusa, ma cerca di comprendere. Spiega perché i dati Gallup mostrano divari enormi su ogni questione politica tra Democratici e Repubblicani. Spiega perché, anche quando le notizie economiche sono le stesse, la fiducia dei consumatori cambia a seconda della tessera elettorale. Spiega perché la sensazione di vivere in due Americhe non è solo un’impressione, ma una struttura mentale. In un’epoca di spiegazioni pigre, l’articolo del WSJ è un elogio dell’analisi non moralistica. E lancia una sfida seria: se vogliamo ridurre la polarizzazione, non basta “dire la verità”. Dobbiamo costruire modi nuovi per riceverla. Dobbiamo riconoscere che non basta avere accesso all’informazione – bisogna anche imparare a processarla in comune. Se no, suoneremo clacson sempre più forti, convinti di essere gli unici a guidare dritti.
Il Telegraph ha pubblicato uno dei pezzi più sorprendenti e onesti sul ritorno alla fede cattolica nella Gran Bretagna del nostro tempo. Il giornalista Tim Stanley racconta di come, la sera del Giovedì Santo, abbia trovato la chiesa di St Anselm a Pembury completamente piena. Famiglie numerose, giovani, persone di ogni origine, tutti lì per due ore di messa in latino, con il canto gregoriano e la comunione ricevuta in ginocchio. Tutto ciò che, secondo i sociologi religiosi, la nostra epoca detesterebbe. Eppure, scrive Stanley, non solo nessuno controllava il telefono: nessuno voleva essere altrove. Non è un racconto folkloristico. E’ una notizia. E il Telegraph, che in genere non indulge in sentimentalismi ecclesiali, ne coglie la forza contronarrativa. “Il risveglio religioso non sta accadendo nonostante la cultura secolare, ma a causa della sua stanchezza”, scrive Stanley. In un mondo in cui tutto è immediatezza, consumo, connessione apparente e solitudine reale, il cristianesimo, con le sue liturgie antiche e le sue domande scomode, torna a essere percepito non come una nostalgia, ma come una necessità. Il Foglio, nella sua versione cartacea e non artificiale, ha seguito con pazienza e senza pose ideologiche questo fenomeno. Matteo Matzuzzi, in particolare, ha raccontato per anni le traiettorie di chi torna alla fede non per fuggire dal mondo, ma per capirlo meglio. La rinascita cristiana che osserviamo oggi non è la reazione di chi ha paura, ma la decisione di chi non si accontenta. Lo dimostra il profilo del nuovo cattolico britannico, americano, tedesco, italiano. Non è solo un convertito, ma uno che si è stancato di dover reinventare se stesso ogni giorno. Che ha scoperto, nella ripetizione del rito e nella serietà della dottrina, non una gabbia ma una liberazione. Lo dicono i numeri, certo: aumentano le conversioni, le vocazioni, le presenze nei seminari tradizionali. Ma lo dicono soprattutto le domande. Torna, sorprendentemente, quella che Stanley si è sentito rivolgere da un’amica: “Come si fa a credere?” Non “cosa devo credere?” o “quale chiesa mi consigli?”, ma proprio come. Il punto non è più il contenuto, ma la pratica. In questo scenario, che oggi ha un senso più profondo anche per chi guarda da Roma, si apre il conclave. Non ci si limita a eleggere un successore: si cerca di capire quale voce potrà reggere l’urto di un tempo sfilacciato. E la notizia buona è che questa voce potrebbe non dover inventare nulla. Potrebbe semplicemente riportare alla luce ciò che esiste già, ma è stato dimenticato: il pensiero cristiano come argine. Non come potere, ma come limite agli eccessi, come diga contro l’irrilevanza.
Matteo Renzi – Ariete (11 gennaio 1975, ma comportamentalmente Ariete) Sì, è nato sotto il Capricorno, ma l’oroscopo comportamentale lo colloca saldamente in Ariete: impulsivo, iperattivo, incorruttibilmente convinto di avere sempre ragione. Questa settimana Marte in opposizione ti costringe a una cosa che detesti: aspettare. Gli altri parlano, rilasciano interviste, si insultano tra loro: tu, stranamente, sembri assente. Non è un caso. Il tuo istinto dice “intervieni subito”, ma le stelle suggeriscono: ritirati un giro, prepara il colpo d’autunno. La Leopolda astrale è ancora lontana, ma si sente odore di benzina e slide. Giuseppe Conte – Toro (8 agosto 1964, ma il suo passo lento è da Toro puro) E’ un Leone sulla carta, ma si muove da Toro: cauto, ostinato, impermeabile alla fretta altrui. Saturno ti guarda con rispetto, ma anche con un po’ di disillusione. Le stelle ti chiedono: hai ancora voglia di recitare la parte dell’uomo perbene che lotta coi mostri? O sei diventato uno dei mostri? La risposta dipenderà da quanto riuscirai a non ascoltare Beppe Grillo (Urano in dissonanza) e a non inseguire Meloni nei suoi monologhi sulle garanzie. Un consiglio: se non sai più da che parte stai, non fare finta di essere equidistante. L’universo odia i neutrali. Carlo Calenda – Gemelli (9 aprile 1973, ma l’anima è gemellare: si contraddice da solo con gusto) Astrologicamente Ariete, ma la sua natura è Gemelli: arguto, polemico, bipolare nel senso più letterario. Mercurio è entrato nella tua terza casa, e questo significa solo una cosa: Twitter ti chiama. Hai già scritto dodici thread, ne pubblicherai otto, te ne pentirai di sei, ne difenderai due con la consueta grinta da pugile che ha letto Popper. Le stelle ti chiedono una cosa: prova a convincere qualcuno senza partire da un litigio. Difficile, lo sappiamo. Ma un giorno capirai che essere insopportabili non è l’unico modo per essere indispensabili. Nicola Fratoianni – Cancro (4 ottobre 1972, Bilancia anagrafica ma lunare, quindi Cancro dell’anima) Sotto sotto sei un romantico. Un nostalgico. Un resistente. Ma anche un po’ un prigioniero del tuo stesso riflesso. Questa settimana la Luna ti protegge, ma ti chiede anche coerenza. Non con le cause (lì sei bravissimo), ma con le alleanze. Ogni tanto sembri più interessato a non stare con nessuno che a costruire qualcosa con qualcuno. Le stelle suggeriscono: prova a parlare con Elly senza cercare subito il punto di rottura. Un’opposizione non si costruisce solo con la purezza: anche la compagnia, a volte, è una forma di giustizia. Elly Schlein – Vergine (4 maggio 1985, Toro, ma precisa come una Vergine cosmica) Toro per nascita, ma le stelle ti rilevano con la pazienza (e l’ansia) di una Vergine: organizzata, instancabile, piena di foglietti e appunti in borsa. Plutone ti osserva con curiosità: stai provando a cambiare tutto, senza fare troppo rumore. Ma l’universo è rumoroso. E Saturno ti manda segnali: serve un salto. Le mediazioni infinite logorano anche chi le fa. La tua sfida è il tempo: non quello che passa, ma quello che scorre senza lasciare traccia. Se il Pd si annoia, non ti salva nemmeno la Segreteria. Prova a essere meno seria, almeno con i tuoi. Potrebbero seguirti, se smettessero di temerti. Postilla siderale (per tutti e cinque): Questa settimana Giove è in casa della Disillusione e Venere è in transito verso il Compromesso. Tradotto: le grandi narrazioni crollano, ma anche le piccole alleanze possono diventare ponti. A sinistra, il cielo è sempre nuvoloso, ma l’oroscopo non mente: chi sa ridere di sé ha più probabilità di sopravvivere alla prossima diretta di Mentana.
C’è un momento, nel teatrino della politica italiana, in cui il sipario si abbassa, le luci si fanno fioche e il pubblico – cioè noi – resta in silenzio. E’ successo il 17 aprile, quando Giorgia Me... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Il Conclave è una macchina antica che resiste al tempo non perché si rinnova, ma perché nessuno è riuscito mai davvero a renderla obsoleta. E’ l’unica elezione al mondo in cui nessuno può candidarsi, nessuno può annunciare il proprio programma, nessuno può far campagna. Ma tutti possono essere scelti. Non è il regno dell’arbitrio, è il regno dell’imprevedibile. Si entra nella Cappella Sistina dopo giorni di riunioni dette “congregazioni generali”, in cui i cardinali parlano, capiscono a chi si può affidare una scelta così irreversibile. Si giura di mantenere il segreto assoluto su tutto ciò che accadrà, si consegnano i telefoni, si viene scortati nella Domus Sanctae Marthae, dove si alloggia fino all’elezione. Dentro, ogni giorno, quattro votazioni: due la mattina, due il pomeriggio. Schede scritte a mano, piegate, depositate in un’urna. Ogni voto è letto a voce alta, ogni scrutinio seguito da una fumata: nera se non c’è risultato, bianca se c’è il Papa. Ma la realtà è che il cuore del conclave non sta nei voti. Sta nei corridoi. Nei segnali lanciati e captati, nei piccoli gruppi che si formano e si disfano. Non ci sono candidati ufficiali, ma ci sono nomi che circolano. C’è anche chi aspetta, chi osserva, chi capisce che forse – come accadde a Bergoglio – non sarà il più votato a ogni scrutinio, ma quello su cui, dopo il quinto o il settimo, tutti si arrendono con un senso di inevitabilità. Non perché sia il migliore, ma perché è l’unico che non divide. La storia del conclave è piena di episodi che spiegano questa logica silenziosa. Nel 2013, quando fu eletto Francesco, non c’era un favorito chiaro. Bergoglio era stato il secondo nel conclave del 2005 – quello che elesse Ratzinger – ma sembrava fuori gioco. Eppure, mentre passavano le votazioni, cominciò a crescere. Non divideva. Venne fuori come quei nomi che, per un effetto di maturazione collettiva, diventano la sintesi accettabile. Quando fu eletto, pioveva su Roma. Uscì sul balcone e disse “Buonasera”. Non parlò da capo di stato. Parlò da pastore. Il conclave più lungo della storia fu a Viterbo, nel 1268: tre anni senza risultato. I cittadini, stanchi, murarono il palazzo e scoperchiarono il tetto per costringere i cardinali a decidere. Così nacque l’obbligo di reclusione, il cum clave. Oggi nessuno pensa che durerà così. Ma il rischio di stallo esiste, sempre. La soglia dei due terzi non si può abbassare, nemmeno dopo settimane. Il Papa deve essere una figura di unità. Non c’è maggioranza semplice, non c’è ballottaggio. Si vota finché non si trova un nome che tenga insieme tutto. E’ una decisione che nessuno può controllare: nessun algoritmo, nessuna pressione, nessuna candidatura. Solo 119 uomini che votano, pregano, aspettano. E a un certo punto smettono di votare e cominciano a capire.
C’è un modo molto comodo per nascondere le proprie colpe: prendersela con chi non può rispondere direttamente. In politica economica, da anni, il capro espiatorio preferito è diventato la Banca centrale. E’ colpa della Fed se l’economia americana rallenta, dice Trump. E’ colpa della Bce se la crescita europea non decolla, dicono molti leader del continente. Ma le cose non sono mai così semplici. E spesso, chi grida contro Powell o Lagarde non chiede rigore, ma indulgenza plenaria per i propri peccati fiscali, industriali, politici. L’esempio più recente viene dagli Stati Uniti, dove Donald Trump ha deciso di puntare il dito contro la Federal Reserve. Giovedì scorso ha accusato Jerome Powell di essere “troppo tardi e sbagliato” per non aver tagliato i tassi di interesse, come invece ha fatto la Bce. Secondo Trump, i dazi stanno arricchendo gli Stati Uniti, i prezzi (persino quelli delle uova!) stanno scendendo, e quindi la Fed dovrebbe allentare la politica monetaria. Subito. Senza se e senza ma. E magari anche dimettersi, visto che, secondo lui, Powell sarebbe ormai un ostacolo alla prosperità nazionale. Il problema è che Powell, a differenza di Trump, ha detto la verità. I dazi non arricchiscono nessuno: sono tasse. Tasse sui beni importati, che si traducono in aumento dei prezzi e in un freno alla crescita. La Fed ha l’ingrato compito di mantenere l’inflazione sotto controllo, ma anche di garantire stabilità economica. Quando il presidente impone un dazio globale del 10 per cento (quattro volte l’aliquota media precedente), le conseguenze si scaricano sui consumatori e sulle imprese. Eppure, anziché ammettere che le sue politiche commerciali stanno creando distorsioni, Trump preferisce spingere la Banca centrale a tagliare i tassi, come se potesse cancellare per magia gli effetti della sua stessa strategia protezionistica. Sembra una storia americana, ma non lo è affatto. Anche in Europa si gioca la stessa partita. Ogni volta che un’economia fatica, qualcuno dà la colpa alla Bce. Troppo rigida. Troppo ossessionata dall’inflazione. Troppo tedesca. E’ diventato quasi un riflesso automatico: se l’Italia non cresce, se la Francia sfora i parametri, se la Spagna arranca sulle riforme del lavoro, dev’essere colpa di Francoforte. Come se la politica monetaria potesse da sola risolvere problemi strutturali, assorbire choc geopolitici, supplire all’assenza di visione industriale. Ma la realtà è diversa. La Bce ha già fatto molto: tassi negativi per anni, acquisti di titoli a valanga, sostegno esplicito alla coesione dell’eurozona nei momenti più critici. Il paradosso, però, è che proprio quando le banche centrali cercano equilibrio, diventano il bersaglio ideale. Il caso Powell-Trump è emblematico perché mette in luce questo cortocircuito. Trump vorrebbe che la Fed correggesse i danni delle sue stesse scelte. Che neutralizzasse l’inflazione da dazi con un taglio dei tassi. Ma la Fed – dopo i disastri post-pandemici – ha capito che la credibilità non si ricostruisce assecondando la politica, ma resistendo alla sua tentazione di facile consenso. E’ una lezione utile anche per l’Europa. L’autonomia delle banche centrali non è un lusso tecnocratico: è una garanzia per tutti. Soprattutto per quei cittadini che non hanno l’arma del tweet per manipolare i mercati. Ma per funzionare, questa autonomia va rispettata. E difesa. Anche dai governi amici.
Da qualche giorno gira sui giornali una storia che sembra confezionata su misura per accendere la nostra ecoansia e spegnere ogni entusiasmo tecnologico. L’intelligenza artificiale, dice il Guardian, consumerà entro il 2030 tanta elettricità quanto il Giappone. I datacenter? Peggio dell’acciaio, del cemento, della chimica messi insieme. Succhieranno più energia delle nostre lavatrici, dei nostri frigoriferi, dei nostri sogni. Anzi: forse faranno risorgere il carbone. E perfino la CO2 starà lì a guardare, sconsolata. Ora, che l’IA consumi energia, nessuno lo nega. Che sia necessario ripensare la sua efficienza, anche. Ma questa narrazione così selettivamente drammatica ci dice qualcosa di più interessante non sull’IA, ma su noi. Perché questo allarmismo ambientale è spesso il travestimento gentile (e green) del rifiuto di un cambiamento che non sappiamo governare. Quando non ci piace dove va il mondo, lo accusiamo di inquinare. Siamo già passati di qui. Ogni volta che una tecnologia si affaccia con troppa potenza – internet, il cloud, i bitcoin, i robot – si ripete lo stesso rito: il sospetto, la colpa, il panico ecologico. L’intelligenza artificiale non sfugge a questo destino. E siccome è anche un po’ inquietante (ci risponde, ci capisce, ci imita), diventa il bersaglio perfetto: troppo potente per non temerla, troppo utile per combatterla frontalmente. E allora si attacca di lato, con la clava dell’ambiente. Ma è davvero tutto così nero come lo dipingono? No. Lo stesso rapporto dell’Iea citato dal Guardian dice che l’IA potrebbe migliorare l’efficienza energetica, aiutare le reti elettriche a integrare le rinnovabili, ottimizzare trasporti, scoprire nuovi materiali e ridurre gli sprechi industriali. E lo dice non un blog tecno-entusiasta, ma l’Agenzia internazionale dell’energia. Il punto è che ogni innovazione, come ogni adolescente, cresce disordinata. All’inizio consuma di più, sbaglia strada, si fa notare per i difetti. Ma poi impara. Anche le auto elettriche sembravano un lusso per pochi e ora sono un pilastro della transizione ecologica. Anche internet sembrava energivoro: oggi evita milioni di spostamenti inutili. Con l’IA sarà lo stesso, se lo vogliamo. E qui arriva il vero nodo. Non è l’IA il problema, ma come la vogliamo usare. E’ una tecnologia potentissima, sì, ma siamo ancora noi a decidere dove indirizzarla. E se non vogliamo che l’energia venga dal carbone, possiamo investire nelle rinnovabili. Se non vogliamo che prosciughi le falde acquifere, possiamo sviluppare sistemi di raffreddamento più intelligenti. L’IA può persino aiutarci a farlo. Ma serve volontà politica, non disfattismo. In fondo, questo allarme dice più di noi che di lei. L’intelligenza artificiale ci obbliga a guardare il mondo com’è: interconnesso, affamato di dati, accelerato. E noi, spesso, non ci sentiamo all’altezza. Allora cerchiamo di rallentare il futuro, accusandolo di scarsa sostenibilità. Ma dietro il “no” all’IA, si nasconde spesso un “no” a un mondo che cambia troppo in fretta per il nostro gusto. La buona notizia? Possiamo ancora scegliere. Possiamo decidere di fare dell’IA una leva per un mondo migliore. Non perfetto, ma meno sprecone. Non magico, ma più razionale. Non un paradiso, ma un progresso. Basta smettere di vedere nei datacenter solo dei mostri e cominciare a vederli per quello che sono: specchi. Riflettono noi. E se l’immagine non ci piace, forse non è colpa dello specchio.
Dopo aver regnato sulla Chiesa cattolica per dodici anni, la morte di Papa Francesco rappresenta un evento storico di massimo impatto. Lo si evince dalle aperture dei giornali nazionali, ma anche quelli esteri, che dedicano all'evento numerose prime pagine accompagnati da messaggi di saluto e stima verso il Pontefice argentino. Argentina Parla di “Un Papa irripetibile” lo storico quotidiano La Nación. Mentre Clarín, fra i più importanti giornali argentini, ricorda Francesco come “il Papa che ha rivitalizzato la Chiesa e non si è mai allontanato dalla politica argentina". Francia “Adieu”, scrive sobriamente Le Figaro, con una grande foto di Francesco che saluta i fedeli a San Pietro. Le Parisien invece titola: “Il Papa del popolo”, accompagnandolo a un primo piano di Bergoglio. “Perdimus Papam”, scrive invece Libération: un gioco di parole che si rifà all'annuncio cerimoniale “Habemus Papam", pronunciato quando a seguito del conclave viene eletto il nuovo papa. Il giornale sceglie una foto del Pontefice di spalle, in bianco e nero. Il quotidiano francese di ispirazione cattolica La Croix invece titola “Il papa che voleva riformare la Chiesa”, con un'immagine di Francesco che saluta i fedeli. “Papa Francesco: l'eredità di un riformatore”, scrive invece Les Échos, il principale giornale economico finanziario francese. Spagna Sulla prima pagina di ABC, il secondo maggior quotidiano generalista di Spagna, si legge “Muore Papa Francesco”. Lo stesso titolo viene usato da El Pais, e su El Mundo, poco sopra un'immagine di Francesco sorridente, campeggia il titolo: “Il Papa che ha scosso la Chiesa e ha voluto dare voce agli esclusi”. Una grande immagine del Santo Padre in preghiera occupa tutta la prima pagina de La Razón, mentre La Vanguardia scrive: “Addio a Francesco, un Papa coraggioso”. Germania “Il papa in cielo!”, commenta il Bild posizionando la notizia nella parte più alta della sua prima pagina. Il quotidiano di Berlino Der Tagesspiegel invece parla de “La sua ultima Pasqua”, dietro un'immagine in controluce del Pontefice. “Il mondo piange Papa Francesco”, scrive invece il Die Welt. Regno Unito Parla di “capo rivoluzionario della Chiesa cattolica” il quotidiano britannico The Guardian, utilizzando la stessa foto del The Daily Telegraph, che invece ha intitolato la sua prima pagina “Un'ultima benedizione pasquale e il suo lavoro fu compiuto”. Più sobrio il Financial Times: “Modernizzare il pontefice nell'era del populismo e della polarizzazione”. Stati Uniti “Il Papa rivoluzionario ha rimodellato la Chiesa”, scrive il The New York Times, e il The Washington Post parla di Francesco come colui che “ha cambiato l'approccio della Chiesa, se non la sua dottrina". Il Time dedica al Pontefice la sua prima pagina, con una sua foto in bianco e nero, mentre il quotidiano statunitense Usa Today scrive: “Un uomo di pace”. Dall'Arabia Saudita al Portogallo Il quotidiano Arab News parla di “Amico dei poveri, campione della libertà palestinese”, mentre dall'Irlanda sia Irish Daily Mirror che Irish Daily Star dedicano le loro prime pagine alla notizia della morte di Francesco. Il quotidiano portoghese Público scrive: “Il Papa preferito dal popolo e dagli atei”. Proseguono i ricordi del Pontefice sul Times of Malta (“Morte di un rivoluzionario”) e lo svizzero Tribune de Genève (“Papa Francesco, una voce semplice è taciuta”). Rimanendo in Svizzera, il quotidiano Le Temps sceglie una foto di profilo del Santo Padre, accompagnata dal titolo: “Il Papa dei dimenticati”. Foto Getty
Il Vaticano ha diffuso questa mattina alcune immagini della salma di Papa Francesco all'interno della bara aperta nella cappella di Santa Marta. Il Pontefice, in una semp... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Fu dalla culla delle fedi abramitiche, dove fu inventata la ruota e prese forma il codice di Hammurabi, vicino alle rovine dello zigurat dell’antica città di Hur che Papa Francesco rivolse il suo r... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Se ci si fermasse al titolo e soprattutto al sottotitolo ("Nell’attesa di un nuovo inizio. Riflessioni sulla vecchiaia”, Lev, 80 pp., 10 euro), si potrebbe pensare che questo piccolo volume sia il ... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
“Chi trae vantaggio dall’opacità? Chi non ha qualità né valori”. Dice così Silvia Fregolent, senatrice di Italia Viva, prima firmataria di una proposta di legge sulla regol... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Il 23 marzo, i soldati israeliani hanno aperto il fuoco contro un’ambulanza che cercava feriti dopo un bombardamento israeliano nella città di Rafah, nel sud della Striscia. Successivamente, sono s... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Forse Donald Trump sta vincendo la sua battaglia per ridurre le importazioni di beni negli Stati Uniti, visto che i dati cominciano a far ved... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Se un Papa non piace ci si sente in colpa. Giudicare un papato sembra un atto fuori misura. Sentimenti e idee personali a parte, un bel po’ di mondo
A Pasquetta non volevo pensare a nulla, non voglio pensare a nulla mai e a Pasquetta meno che meno, volevo concentrarmi solo sul taglio del tradizionale salame (taglio un po’ difficoltoso perché per errore l’ho comprato troppo fresco, e sì che la negoziante me l’aveva fatto palpare...). Ed ecco che Dio mi pone davanti a un cortocircuito resurrezione-morte. Solo poche ore prima, durante una bellissima veglia pasquale, avevo sentito i campanelli annunciare dall’altare la resurrezione di Cristo e adesso devo sentire le campane a morto per il Papa. E’ la vita, ovvio, si muore tutti i giorni, c’è chi muore addirittura a Natale, e tuttavia è impossibile non sentirsi chiamati allo sforzo di una riflessione. A differenza dei mondani noi cristiani abbiamo confidenza con la morte, la nominiamo sempre, nell’Ave Maria, nella messa, di sicuro non ci stupisce. E però un vero conservatore, a differenza del progressista bramoso di novità, le notizie le detesta e deplora l’estinzione di persone e cose perfino se sgradite: sia per cristiana misericordia, sia perché si fa l’abitudine a tutto, sia perché al peggio non c’è mai fine. L’eterno riposo dona a lui Signore, e a noi un nuovo Papa che non faccia notizia.
Il M5s lo definisce “modello Santanchè” (in salsa barese). E punta il dito contro interessi privati e clientelari. “Chiediamo che in Puglia si accendano i riflettori su quanto accadut... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
La sera che Papa Francesco si affacciò per la prima volta dalla grande Loggia di San Pietro ero felice come lo erano sicuramente tutti i cattolici del mondo. La sua elezione era un... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Conservatore: Non mi sorprende che la Corte Suprema abbia deciso così. Era prevedibile, anzi necessario. C’è bisogno di ancorare il diritto a una base stabile, che non cambi a seconda dell’identità... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti