Rassegna Stampa Quotidiani
Il Foglio.it
Una nuova perquisizione dai sovranisti francesi allarma Bardella
8 ore fa | Mer 9 Lug 2025 17:31

Parigi. Per Jordan Bardella, presidente del Rassemblement national (Rn), è una “nuova operazione di persecuzione”. Q... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

L'Ue si è rassegnata a un accordo penalizzante sui dazi di Trump
8 ore fa | Mer 9 Lug 2025 17:29

Bruxelles. Il 9 luglio, il giorno dei dazi di Donald T... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

Regole (e segreti) del “Royal Box” di Wimbledon
8 ore fa | Mer 9 Lug 2025 17:06

Wimbledon. In sala stampa, tra le letter box dove lo staff infila ogni mattina i documenti col programma delle partite, i risultati e altre informazioni tecniche del tabellone maschile e femminile di Wimbledon, ce n’è una speciale, in basso a sinistra: è la cassetta di legno che contiene la lista degli invitati del giorno del Palco Reale, o meglio del “Royal Box”,  ovvero la zona delle tribune del Center court riservata, come riporta il sito ufficiale, a “famiglie reali britanniche e d’oltremare, capi di governo, persone del mondo del tennis, partner commerciali, forze armate britanniche, importanti organizzazioni dei media, sostenitori del tennis”. Quest’anno, al primo turno dei Championships, accanto a politici e ceo di grandi aziende, c’era David Beckham (assieme alla madre Sandra, come da tradizione), l’ex star del Manchester United e della Nazionale inglese, la cui reazione ai colpi formidabili di Fabio Fognini contro Carlos Alcaraz è diventata virale. Due giorni fa, è spuntato un certo Roger Federer, con la moglie Mirka, mentre ieri, sul Centre court, c’era Jodie Foster, estasiata dai colpi della tedesca Laura Siegemund, che ha fatto traballare la numero uno al mondo, Aryna Sabalenka, e accanto a lei, a qualche seggiolino di distanza, Sienna Miller. Prima di internet, si scopriva chi erano gli ospiti del Palco Reale tramite un binocolo (per i fortunati che avevano un biglietto sul Campo centrale) o tramite il passaparola (per i meno fortunati, che avevano l’informazione dai più fortunati). Oggi il sito di Wimbledon riporta ogni giorno i dettagli sull’identità dei guest, e le pagine di costume e mondanità dei principali giornali britannici, durante l’intera durata dei Championships, hanno una rubrica quotidiana intitolata “Who is in the royal box at Wimbledon 2025 today?”, che appaga i più curiosi, gli appassionati di Royal Box. Ma come si accede al Palco Reale, allestito per la prima volta sul Centre court nel 1922? Solo su invito, che arriva dal presidente dell’All England Club Lawn Tennis and Croquet Club (Aeltc), il quale a sua volta si consulta con il comitato che organizza il torneo, con la Lawn Tennis Association, la federazione tennistica britannica, e con altri opinion leader che segnalano le personalità di spicco a cui potrebbe essere offerto un posto. Il dress code? Gli uomini devono indossare abiti sartoriali, giacca e cravatta, magari con un clin d’oeil ai colori per antonomasia dell’Aeltc (il verde dei campi in erba e il viola della regalità), le donne evitare gioielli eccentrici e cappelli voluminosi o con piume e orpelli, poiché potrebbero ostruire la visuale agli altri ospiti del palchetto. Tutti devono rispettare il dress code, nessuna eccezione, nemmeno se ti chiami Lewis Hamilton e sei un eroe nazionale. Nel 2015, forse dimenticandosi di leggere il regolamento dell’Aeltc, o forse pensando che, in quanto Lewis Hamilton, sarebbe entrato con qualsiasi outfit, si presentò in camicina a fiori, cappello di paglia e orecchino: facendosi respingere dagli organizzatori. Ogni posto a sedere, 74 sedie di vimini Lloyd Loom di colore verde scuro dotate di un’imbottitura per garantire il massimo confort, è dotato di una smart Tv che permette di sbirciare anche ciò che succede sugli altri campi. Dalla Royal Box, va da sé, la vista sul Centre Court è la migliore che ci sia: puoi sentire il respiro dei giocatori impegnati sul campo. L’irruzione dei social ha reso meno segreti molti segreti del Royal Box, come i kit regalo consegnati a ogni ospite, o come i riti del pranzo, del tè delle cinque e le sue pâtisseries con il simbolo di Wimbledon (Judy Murray, la madre di Andy, l’ultimo britannico a vincere Wimbledon, pubblicò su X una foto nel 2019 dell’aspetto dei dolci serviti ai guest.                      “Non è consentito mangiare o bere quando si è seduti nel palchetto, ma in seguito sarete invitati alla Clubhouse per il pranzo, il tè e le bevande, quindi non sarete affamati”, ha detto al Daily Express Grant Harrold, ex maggiordomo di Re Carlo III d’Inghilterra ed esperto di Royal Box. E la sera, alla Clubhouse, spazio alle flûte di champagne. Il primo reale a presenziare a una partita di tennis a Wimbledon è stato il futuro re Giorgio V, insieme alla principessa Mary di Teck, nel lontano 1907, quando ancora era il principe del Galles. Lo stesso anno, fu insignito del titolo di patron del torneo dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club. E da allora vige la regola secondo cui un membro della famiglia reale viene coinvolto nell’organizzazione con quel titolo . La regina Elisabetta II non ha mai amato particolarmente il tennis e non è mai stata troppo presente nel Royal Box (quattro apparizioni a Wimbledon in ben 70 anni di regno), e nel 2016 cedette l’onorificenza a Kate Middleton. Dal 2017, la principessa del Galles e moglie dell’erede al trono William, è patron of Wimbledon’s All England Lawn Tennis and Croquet Club. La principessa Diana, a differenza della regina Elisabetta II, era invece un’habitué del Royal Box. Le immagini dell’epoca la mostrano vestita in completi a spalle larghe e texture colorate insieme al principe William ancora bambino. Ma nel Palco Reale non si presentò mai in compagnia di Carlo, che invece, nel 2012, si affacciò sul Centrale insieme a Camilla. All’epoca di Giorgio, iniziò l’usanza per gli sportivi di fare l’inchino al Royal Box in segno di omaggio alla famiglia reale britannica. Una tradizione eliminata nel 2003 dal presidente del club, il duca di Kent, che la considerava anacronistica. Ma ci fu un’eccezione: Andy Murray, che nel 2010 si inchinò davanti alla sua sovrana, Elisabetta II, perché la considerava un’opportunità “once in life”, unica nella vita.

L'ellissi perfetta di Remco Evenepoel
9 ore fa | Mer 9 Lug 2025 16:26

I centosettantuno centimetri di Remco Evenpoel hanno la capacità di distribuirsi in modo perfetto su di una bicicletta da cronometro, disegnando un’ellissi perfetta capace di muoversi nell’aria nel modo meno invasivo possibile.   Il belga è scivolato nel vento del Calvados per trentasei minuti e quarantadue secondi, escludendo nel suo avanzare qualsiasi movimento che non fosse quello delle gambe. Busto e spalle immobili, alla maniera di pochi, dei migliori specialisti delle prove contro il tempo. Un incedere elegante e raffinato, eppur potente. Soprattutto efficacissimo. A Caen è stato il più veloce, ha festeggiato la seconda vittoria al Tour de France, ha soprattutto messo tra lui e tutti gli altri corridori che hanno idee di podio un sacco di secondi. Un buon modo per levarsi di dosso qualsiasi ansia durante l’attesa dei Pirenei. Un buon modo per dire coi fatti "ho fatto un passo verso il podio". Ha pedalato fortissimo, Remco Evenepoel. Ha ottenuto i vantaggi che voleva, forse pure qualcosa di più. Si sarebbe accontentato anche di meno del minuto e diciannove rifilato a Matteo Jorgenson e Primoz Roglic, o del minuto e ventuno perso da Jonas Vingegaard. Aveva la faccia stupita quando ha visto sul tabellone il tempo del danese. Poi, dopo lo stupore, i suoi occhi hanno fissato il vuoto, mentre i suoi canini si sono stretti sul labbro inferiore. Il ciclismo è sport dove le delusioni spesso si trasformano in volontà di rivalsa e hanno la capacità di stimolare forza d’animo e fantasia. Jonas Vingegaard si è costretto a un Tour d’attacco. Perché Tadej Pogacar è stato l’unico in gruppo a pedalare al ritmo di Remco Evenepoel. Certo le sue spalle si muovevano di più e il busto ondeggiava seguendo il movimento delle gambe, ma il ciclismo non è un concorso d’eleganza. Lo sloveno ha lasciato a Evenepoel sedici secondi all’arrivo, ne ha conservati quarantanove di vantaggio in classifica generale. Sul palco delle premiazioni si è vestito di pois rossi (miglior scalatore), di verde (leader della classifica a punti), soprattutto di giallo. Quarantunesima maglia gialla in carriera. Meglio di lui solo Jacques Anquetil (50), Chris Froome (59), Miguel Indurain (60), Bernard Hinault (75) ed Eddy Merckx (96).  A lungo, vedendo gli altri corridori percorrere quei trentatré chilometri colorati da un serpentone (quasi) ininterrotto di facce, magliette, cappellini e bandiere di più o meno tutte le parti del mondo, Edoardo Affini ha sperato che il vento cambiasse leggermente direzione, che si intensificasse di quel poco che sarebbe bastato per farlo continuare a sedere sulla poltrona dedicata all’uomo più lesto ad arrivare al traguardo. Ha passato una giornata da primo della classe, si è alzato solo per fare posto a Remco Evenepoel. Ha chiuso il pomeriggio da terzo di giornata. Ha allargato le braccia, sospirato un “Che vuoi farci? È troppo forte” prima di andarsene.

L'eccezione del Papa: è in vacanza ma riceve Zelensky a Castel Gandolfo
9 ore fa | Mer 9 Lug 2025 15:50

Due settimane di relax a Castel Gandolfo senza udienze a dignitari stranieri. Con una eccezione: questa mattina, Leone XIV

Chi è Gianluca di Un posto al sole
9 ore fa | Mer 9 Lug 2025 15:43

Ancora non può concludersi (e chissà quando si concluderà) la storia di Luca, che si apre quella di Gianluca. Molti dei fan di Upas non ricordano assolutamente nulla del ragazzo. E quindi gli autori ne approfittano per un recap. Il ragazzo, figlio di Alberto, avuto non si sa con chi, da anni ha interrotto i rapporti con il padre che lo aveva messo in mezzo ai suoi affari loschi. Da allora il ragazzo è finito solo come un eremita non si sa dove a fare non si sa cosa. Ora ovviamente tutti si preoccupano di non far sapere ad Alberto che è proprio lui a ospitare Luca, ma sappiamo già che anche questo segreto avrà vita breve. Nel frattempo continua il siparietto leggero tra Samuel, Micaela e la nuova ragazza cubana. Con qualche scenetta anche simpatica, ad alleggerire lo change sulla pesantezza della signora Giulia. E Damiano sempre in mezzo ai blitz e ai guai che non fa stare mai serena Viola e la sua famiglia.

Le differenze tra Papa Leone e Bergoglio sull'Ucraina
10 ore fa | Mer 9 Lug 2025 15:16

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Quel che la morte di don Matteo a Balzano fa ronzare in testa come uno sciame irrequieto
12 ore fa | Mer 9 Lug 2025 12:43

Hai voglia a dire che questo è il tempo del silenzio e del rispetto. Lo è, senza dubbio: ma dal virale diffondersi della notizia della morte di don Matteo, questo è anche un tempo nel quale abbiamo bisogno di ritrovare un filo al quale aggrapparci. Come scriveva il teologo e rettore dei seminari milanesi Luigi Serenthà, tra il possibile rischio di cadere in parole ovvie e convenzionali e l’impossibile impresa di addentrarsi in spiegazioni che vengano a capo del “perché?”, è possibile ricorrere allo strumento umile della risonanza, che non scoraggia il rischio del confronto personale con un tema, ma è al tempo stesso consapevole del limite che quell’impresa ha. Perché siamo umani e non bestie, e abbiamo comunque bisogno di qualche luce.   Una prima risonanza potrebbe essere una frase tanto ovvia quanto presupposta e sbrigativa: “Anche i preti sono uomini come tutti gli altri”. Vero. Condividiamo le stesse fragilità di ogni altro essere umano, l’uguale necessità della formazione continua e prima ancora della relazione che ci riconosca nel profondo, per quello che siamo e non solo per quello che facciamo. Necessitiamo di una conoscenza realistica, che non rimuova né spiritualizzi nulla, neppure il nero marcio che c’è in noi, quel negativo spaventoso che viene dalla ferita che ha cambiato l’essere umano dall’origine, rendendogli difficile la fede, la speranza, la carità, la gioia del Vangelo. Facendogli preferire la morte alla vita. Ce ne dovremmo ricordare non solo adesso per don Matteo, ma per ogni creatura messa di fronte a un dolore che arriva a vivere senza speranza: c’è una soglia dolorosissima, un caso serio, rispetto al quale chiunque, anche un prete, può cadere al di là. Abbiamo bisogno di un Salvatore che ci raggiunga lì dove forse nessun altro ha mai avuto accesso: e abbiamo bisogno di credergli nonostante tutto, anche contro ogni speranza, lasciando che i nostri bisogni più profondi siano tirati fuori ed evangelizzati, visti e conosciuti con lo sguardo di Cristo. Fidandoci più di lui che dei giudizi della gente o dei nostri confratelli, o da quelli che si aspettano da noi l’esecuzione e l’interpretazione di un ruolo, nel quale certe difficoltà non sono né previste né ammesse.   Una seconda risonanza allarga il cerchio: “Ma chi è che si prendeva cura di lui? Non aveva nessuno vicino a sostenerlo?”. La questione è spinosa, ci siamo trovati dentro tutti: si può aiutare qualcuno che magari non vuole essere aiutato? Qualcuno che non ha coscienza della sua fragilità, ovvero ne ha fin troppa e vive nella vergogna e nella negazione di sé? Nella paura di esistere? Queste paure sono amplificate dall’irrilevanza nel quale spessissimo il ministero oggi si trova in mezzo; dalle riforme pastorali che stentano, e che producono un carico di lavoro sempre più pesante (insensato?) per tutti; dall’esperienza di non essere sostenuti e voluti bene da chi per primo ce lo dovrebbe garantire: il nostro vescovo e le nostre comunità. Non sappiamo nulla di don Matteo, e – ripetiamo – non stiamo parlando di lui: ci muoviamo entro quelle risonanze che la sua morte come uno sciame irrequieto fa ronzare per la testa. Ma quanti di noi alla domanda di cui sopra potrebbero rispondere con un “no” rotondo e rassegnato? E quanti invece con un “sì” felice e rassicurante? Quanti di noi possono contare su di una paternità esercitata, passata al vaglio delle prove, fatta di una comprensione grande quanto tutto l’umanamente possibile? Ci sono pastori che dovrebbero fare questo per dovere di ministero o di ufficio, che magari ti ascoltano e che ci provano, ma che non escono mai dal perimetro di una valutazione morale, o della decisione sul da farsi. Non sono cioè preoccupati di creare veramente una relazione da persona a persona, di incontrare nel cuore/coscienza profonda il confratello che hanno davanti: il problema da risolvere viene comunque prima, specialmente se è di natura amministrativa/economica. Arrivano anche a darti delle indicazioni rispetto al problema fastidioso da risolvere per il quale ti sei rivolto a loro; ma se non hai problemi da risolvere e nemmeno ti fai vivo, rischi di restare da solo, o di non essere mai visto da nessuno dei tuoi superiori nel cuore di te. Il sistema rimane normativo e accentratore, rispetto ad un contesto fattosi invece assai complesso, difficile da fronteggiare per chiunque, sfuggente a qualunque razionalizzazione, dove non basta eseguire gli ordini o ripetere quello che si è sempre fatto. La terza risonanza potrebbe suonare: “Cosa c’è da cambiare in tutto questo? Cosa c’è di personale (perciò irriducibile) e cosa invece di strutturale (cioè riformabile e rivedibile)? Cosa si è fatto obsoleto al punto da consumare slanci generosi in frustrazioni pericolosissime? In vite inautentiche, che recitano una parte finché non succede qualcosa di più performante/interessante rispetto a ciò che si è vissuto e imparato in seminario?”. Qui ci fermiamo. Le risonanze non sarebbero uno strumento adeguato a rispondere a domande del genere. Nell’Istituto Pastorale dell’Università Lateranense questioni come queste sono pane quotidiano della ricerca accademica. Possiamo soltanto sommessamente suggerire quanto rimanga importante lo studio, la preparazione, i tempi di digestione e di assimilazione del vissuto pastorale (dalle confessioni all’accompagnamento delle situazioni difficili, che espongono a stress emotivi da non sottovalutare), la messa a punto di quegli strumenti senza i quali qualunque idea di riforma della vita e della evangelizzazione della Chiesa finirebbe per diventare una parola retorica. C’è però un’ultima risonanza da appuntare: una parola di Cristo che risuona divina dentro a vicende del genere, e alla quale noi stessi avremo sicuramente fatto riferimento celebrando funerali di fratelli e sorelle venuti a mancare al modo in cui è venuto a mancare don Matteo: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi darò ristoro”. Aiutiamoci a dare carne e sangue a queste parole: le nostre. Non potremmo forse risolvere tutto e sempre efficacemente o con competenza, ma essere di ristoro questo sì. Lo possiamo essere in ogni momento.   don Paolo Asolan, preside Istituto Pastorale Pontificia Università Lateranense

La nuova serie di Cazzullo sui "grandi italiani" ci dice anche che di grandi italiani ce ne sono sempre meno
13 ore fa | Mer 9 Lug 2025 12:41

Sulla capacità affabulatoria di Aldo Cazzullo non c’è nulla da ridire, pertanto sarà di certo un successo editoriale la nuova serie di video sui grandi italiani che ha curato per il Corriere. I dodici prescelti sono Virgilio, Cesare, Augusto, San Francesco, Dante, Galileo, Michelangelo, Cavour, Garibaldi, Manzoni, Verdi e Florence Nightingale. Giova tuttavia ricordare che Virgilio, Cesare e Augusto sono vissuti in un’epoca in cui l’Italia era solo una porzione di un vasto impero in espansione; San Francesco visse ad Assisi nel periodo in cui era contesta fra un imperatore tedesco e spinte municipali autonome; Dante scriveva accorate lettere al lussemburghese Arrigo VII apostrofandolo quale “unico signore del mondo” e implorandolo di conquistare la penisola; Galileo nacque a Pisa sotto il controllo mediceo e poté insegnare a Padova grazie alla tolleranza della Serenissima Repubblica di Venezia; Michelangelo deve la sua opera più celebre alla munificenza dello Stato Pontificio; Cavour morì tre mesi dopo l’unificazione; Garibaldi venne preso a pallettate dall’esercito italiano un anno dopo l’unificazione; Manzoni concluse l’ultima revisione de “I promessi sposi” vent’anni prima della medesima unificazione; Giuseppe Verdi, dopo questa benedetta unificazione, si manteneva con commissioni ricevute da San Pietroburgo, Parigi, Londra, Il Cairo; Florence Nightingale nacque sì a Firenze ma, da metà Ottocento, visse in Germania, in Turchia, in Inghilterra. Massimo D’Azeglio diceva che, fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani; non si aspettava che, per smettere di fare dei grandi italiani, sarebbe bastato fare l’Italia.

Zelenski è a Roma. L'incontro con Papa Leone e Mattarella
13 ore fa | Mer 9 Lug 2025 11:54

Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si trova a Roma per partecipare alla conferenza internazionale sulla ricostruzione dell'Ucraina in programma domani e venerdì presso la Nuvola all'Eur. Questa mattina è stato ricevuto da Papa Leone XIV a Villa Barberini, nella residenza di Castel Gandolfo, riaperta dal pontefice dopo 12 anni per trascorrerci parte delle vacanze estive. "Grazie tante", ha detto Zelensky accolto dal Pontefice. Il quale ha mostrato al presidente ucraino l'affaccio sul lago di Albano, raccogliendo l'apprezzamento del leader ucraino: "Una bella vista!". La conversazione è poi andata avanti in inglese. L'ultimo incontro ufficiale con il leader ucraino è avvenuto lo scorso 18 maggio al termine della messa di insediamento di Prevost. Qualche giorno prima, il 12 maggio, tra il Pontefice e Zelensky c'è stato anche un primo colloquio telefonico, nel corso del quale il presidente ucraino ha invitato il Papa a Kyiv.  Nel corso della giornata, Zelensky incontrerà il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e l'inviato americano per l'Ucraina, Keith Kellogg.   La conferenza di domani La quarta l'edizione della Conferenza sulla ricostruzione dell'Ucraina, a Roma domani e venerdì, è un evento di alto profilo internazionale dedicato alla ricostruzione economica, istituzionale e infrastrutturale del paese. L'appuntamento, co-organizzato da Italia e Ucraina, rappresenta infatti un momento cruciale per rilanciare la cooperazione multilaterale e attrarre investimenti pubblici e privati, in un momento in cui la guerra su larga scala con la Russia continua a infliggere gravi danni al tessuto produttivo e sociale del paese. Le due giornate saranno aperte dalla premier italiana Giorgia Meloni e dal vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani, ma non dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini, che in quei giorni non sarà in Italia bensì in Cina, prima a Pechino e poi a Shanghai. Seguiranno gli interventi della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, del cancelliere tedesco Friedrich Merz e di Donald Tusk, primo ministro della Polonia (in cui si organizzerà la prossima edizione del summit). Ai lavori della conferenza, inoltre, parteciperà anche Olena Zelenska, first lady ucraina, con un discorso dedicato alla dimensione umanitaria della ricostruzione. In tutto, saranno venti i capi di stato e di governo presenti. Ma, come anticipato dal Foglio, non saranno a Roma il presidente francese Emmanuel Macron e il primo ministro del Regno Unito Keir Starmer (il primo è ospite in quei giorni proprio della famiglia reale a Windsor). Per la Casa Bianca è atteso Kellogg, da marzo di quest'anno inviato speciale da Trump per l'Ucraina. A partecipare all'evento (diviso in più sessioni plenarie) saranno anche 30 aziende ucraine, 28 aziende italiane e 29 internazionali, affiancate da 30 comunità locali ucraine e organizzazioni di sviluppo. Tra i nomi italiani figurano Enel, Ansaldo Energia, Ferrovie dello Stato, Leonardo, Snam, WeBuild, Iveco, Camozzi e molti altri, mentre fra le imprese straniere spiccano Siemens, Bayer, Scania, Orlen, London Stock Exchange Group, Arx Robotics e Citi.

La giravolta di Tajani: "Ius scholae? Neanche per me è una priorità. Sintonia con Pier Silvio Berlusconi"
13 ore fa | Mer 9 Lug 2025 11:43

"Per Pier Silvio Berlusconi lo ius scholae non è una priorità? È quello che ho sempre detto anch'io. Ho detto sempre che non è una priorità, che c'è una nostra proposta di legge che si chiama ius italiae che punta a far sì che chi studia in Italia dopo dieci anni possa chiedere di diventare cittadino italiano". Lo ha detto il segretario di Forza Italia, Antonio Tajani intercettato dai cronisti che gli chiedevano un commento alle parole di Pier Silvio Berlusconi, che abbiamo riportato qui.  "Cercherò di spiegare a tutti i contenuti della nostra proposta, che non è una proposta lassista", ha continuato il vicepremier e ministro degli Esteri. "Ho sempre detto che la nostra priorità si chiama riforma della giustizia, riduzione della pressione fiscale e tutela della salute del cittadino. Non ho mai detto che era una priorità, ho detto qual è soltanto la nostra posizione. Da questo punto di vista siamo in perfetta sintonia. Andremo avanti nel sostenere e difendere le nostre idee", ha chiarito.  La proposta di Forza Italia prevede di concedere la cittadinanza ai regolari residenti in Italia che abbiano concluso un percorso scolastico di dieci anni ma è stata accolta in maniera molto tiepida dagli alleati di governo. Dopo la stroncatura di Pier Silvio Berlusconi, affidata ai cronisti insieme ad alcuni altri giudizi politici sul partito fondato dal padre a margine della presentazione dei palinsesti Mediaset, non si è fatto attendere, infatti, il commento di Matteo Salvini. "Noi non condividiamo il principio di accorciare i tempi per concedere le cittadinanze, e sicuramente non è una priorità per gli italiani. Partita chiusa, tema archiviato, se ne occuperà semmai la sinistra fra trent’anni se vincerà”, ha detto durante il suo viaggio in Asia.  "Non sono gli altri partiti a decidere quando, come e dove parlare. Abbiamo le nostre idee – è la replica di Tajani –  io ho le mie idee, ne sono convinto, non le cambio e sono pronto a spiegarle nel modo migliore a tutti per far capire quanto la nostra proposta sia una proposta che punta a concedere la cittadinanza in maniera seria e forse più severa di come viene concessa oggi".

La Red Bull ha cacciato Chris Horner
14 ore fa | Mer 9 Lug 2025 11:04

E se Horner adesso richiamasse John Elkann e gli dicesse che ha cambiato idea e accetta la sua offerta? Certo la Ferrari non ingaggerebbe più un team principal di un team vincente, ma offrirebbe lavoro a un miliardario disoccupato. L’importante sarebbe non fermarsi alle apparenze e, se davvero non si ha più fiducia in Vasseur, procedere il più in fretta possibile. Si potrebbe sempre guardare in casa dove qualcuno che da tre anni vince a Le Mans non è lontano. Ma questi sono altri discorsi. La notizia del giorno è la cacciata di mister Red Bull, di quel Christian Horner che da un anno viveva in equilibrio sull’orlo del burrone, uno di quegli sport estremi tanto cari al brand che rappresentava in Formula 1. Il terremoto in fin dei conti è arrivato con un anno di ritardo, quando lo scandalo sembrava ormai archiviato. Christian Horner dopo 20 anni viene cacciato dalla Red Bull, il team che aveva creato dal nulla, fino a portarlo a conquistare mondiali a ripetizione con Vettel e Verstappen. Sarebbe stato proprio Max a chiedere l’allontanamento del team principal con cui era ormai alle strette da tempo. Al posto di Horner arriva con effetto immediato Laurent Mekies, già vice di Binotto e di Vasseur in Ferrari, oggi team principal del team satellite a Faenza. Una promozione meritata, un altro ex ferrarista che va a vincere da qualche altra parte. Ricordate quando se ne andò da Maranello pochi giorni dopo che Vasseur ne aveva parlato come di uomo base per la Ferrari che stava ricostruendo. Mekies ha vinto la sua scommessa, ora avrà di che divertirsi. Christian Horner era la Red Bull. Cominciò a lavorare a Milton Keynes nel gennaio del 2005, quando divenne il più giovane team principal del Circus. Quattro anni dopo in Cina arrivò la prima vittoria del team nato dalla lattina di una bevanda energetica, sulle ceneri della Jaguar che era seguita a sua volta alla Stewart. Dopo più di 20 anni Horner lascia da baronetto di sua Maestà britannica, con 14 titoli mondiali e 124 gran premi vinti. In mezzo ci sono stati anche il matrimonio con l’ex spice girl Gery Halliwell e lo scandalo sessuale che un anno fa lo aveva sbattuto in prima pagina sui tabloid inglesi e non solo. Siamo a una svolta epocale per un team che dopo la morte di Dieter Mateschitz ha cominciato a risentire di una serie di lotte interne che un anno fa portarono alla fuga di Adrian Newey, il mago che aveva disegnato le Red Bull vincenti (ma anche quelle perdenti durante il dominio Mercedes). Tutto il mondo è paese in fin dei conti, ricordate che cosa accadde in Ferrari dopo la scomparsa di Sergio Marchionne. Un anno fa Horner, nonostante la fura di Newey, era stato salvato da Chalerm Yoovidhya, l’azionista di maggioranza del gruppo Red Bull, ma poi la spinta di Max e del suo clan hanno convinto Oliver Mintzlaff, ceo del gruppo Red Bull, a indicare l’uscita a Horner, puntando tutto sulla riconoscenza di Max che così dovrebbe allontanare le sirene. Sarebbe il colmo se ora Max dovesse andarsene in Mercedes o in Aston Martin. Se oggi Red Bull è ancora un top team lo deve solo a lui e alle sue magie. Il futuro è un grosso punto interrogativo visto che dalla prossima stagione dovrà farsi i motori in casa, in una struttura che proprio Horner ha voluto mettere in piedi dopo che erano saltate le trattative con la Porsche per una partnership che avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa di più. Per Red Bull è arrivato l’anno zero. Giusto dare lo scossone ora per preparare al meglio la prossima stagione. Perché a luglio non c’è già più tempo in Formula 1, nonostante quello che racconta qualcuno in Ferrari.

Ma il famoso “carrello della spesa” è così un disastro? Una replica
15 ore fa | Mer 9 Lug 2025 10:11

Al direttore - La spasmodica e diffusa ricerca di ciò che non va bene nel nostro sistema economico ha trovato da qualche tempo un valido bersaglio nel cosiddetto “carrello della spesa”, i cui prezz... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

Pier Silvio Berlusconi: “Forza Italia? Servono forze nuove. La politica? Come tante cose nella vita, non la escludo”
15 ore fa | Mer 9 Lug 2025 10:00

“Il problema di Forza Italia è che sono anziani, non dico anagraficamente. Sono anziani per mentalità. Ci vorrebbe una iniezione di forze nuove”, dice così Pier Silvio Berlusconi a margine della presentazione dei palinsesti Mediaset riferendosi al partito fondato dal padre Silvio Berlusconi nel 1994. L’amministratore delegato di Mediaset spiega anche di avere dubbi sulla proposta del cosiddetto ius scholae avanzata dal segretario di Forza Italia, e vice premier, Antonio Tajani. “Non credo sia una priorità del paese. Prima ci sono le pensioni, la sanità, le tasse da abbassare“. Berlusconi non esclude nemmeno del tutto un suo futuro ingresso in politica, scherzando, ma non troppo dice: “La politica? Non la escludo, come non escludo tante cose nella vita. Ho 56 anni. Mio padre ci è entrato a 58.” Poi abbassa un attimo la voce: “È una brutta bestia, la politica. Io faccio finta che non esista. Ma se ci penso, parto. L’idea mi crea passione”. E su Giorgia Meloni: “Il suo è il migliore governo possibile. È bravissima”.

Dept. Q è la nuova serie tv Netflix, un crime dalla trama avvincente e un detective brillante
16 ore fa | Mer 9 Lug 2025 09:10

Una manciata di “Scottish noir”, un po’ di crime dalla trama avvincente, un detective brillante e tormentato e il volto di Matthew Goode. Ingredienti in abbondanza per una serie solida e di qualità. Così è Dept. Q – Sezione casi irrisolti, serie scozzese (adattamento di libri e serie nordica), realizzata dallo showrunner Scott Frank (Minority Report e La Regina degli Scacchi, tra i vari successi in carriera) disponibile su Netflix in nove episodi. Carl Morck (interpretato dal bravo e bello Matthew Goode) è un ispettore capo di Edimburgo dal fare misantropo e genialoide che porta sulle spalle un fardello da senso di colpa, in purezza (presentandosi causalmente su una scena del crimine, ha causato la morte di una recluta della polizia mentre il suo collega – il detective Hardy – ha perso l’suo delle gambe). Morck se l’è cavata con una pallottola nel collo, un tormento interiore perpetuo e una vita che sembra ormai incrinata per sempre. Gli viene affidato un nuovo dipartimento, chiamato Q: ha sede nello scantinato della polizia (citofonare Slow Horses) e ha il compito di riprendere in mano vecchi casi irrisolti. La squadra di Carl è formata dal poliziotto rifugiato siriano Akram – posato e dalle qualità nascoste – e Rose, relegata al lavoro d’ufficio dopo un crollo nervoso. Il caso di cui i tre si occupano (e che si snoderà per tutte le puntate della stagione) è legato alla scomparsa, quattro anni prima, del pubblico ministero locale Merritt Lingard, donna che condivide con Carl una certa misantropia e un carattere duro. L’avvocato scompare mentre sta viaggiando su un traghetto locale insieme al fratello, che ha perso l’uso della parola a seguito di un evento traumatico. Si scoprirà presto (piccolo spoiler ma giù presente nei pilot) che Merritt è in realtà stata rapita e tenuta segregata da anni. Il giallo, che segue due linee narrative distinte, si snoda in modo compatto per tutti gli episodi (forse si sarebbe potuto sfrondare un po’ il numero di puntate), convincendo nei vari passaggi narrativi e riuscendo a tenere insieme atmosfere livide, registri diversi c’è anche sempre un tocco di ironia caustica che smorza i toni e male non fa) e buoni colpi di scena. Come spesso accade però per i prodotti british, il vero punto di forza di Dept. Q sono i personaggi: tutti chiaroscurali, vividi, veri. E, per questo, un’umanità a cui affezionarsi e di cui, alla fine, sempre ti importa.   Qual è il tono della serie in due battute? “Lei è superiore alle altre persone, Carl?” “Lo standard è basso. Non crede?”. “Sapevo che eri morto” “Solo dentro. Parliamo di te”.

L'Ue toglie un miliardo alla Spagna per non aver toccato le accise sul diesel
16 ore fa | Mer 9 Lug 2025 09:03

La Commissione europea ha tagliato di 1,1 miliardi di euro (su un totale di 24) la quinta rata del Pnrr spagnolo perché il governo di Pedro Sánchez non ha rispetta... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

Giani (Pd) avvisa Schlein: "La vittoria in Toscana senza di me non è scontata"
17 ore fa | Mer 9 Lug 2025 08:20

Per Eugenio Giani cambiare candidato alla presidenza della Regione Toscana potrebbe mettere a rischio la vittoria del centrosinistra. Intervistato dalla Stampa, alla domanda se il centrosinistra vincerebbe comunque anche con un altro nome, risponde: “Non è così. Qui non c’è più il voto rosso delle vecchie sezioni del Pci, la vittoria non è scontata. E il probabile candidato del centrodestra, Alessandro Tomasi, è primo per gradimento tra i sindaci toscani: nel confronto con me non sfonda, con altri non so”. Un messaggio chiaro rivolto alla segretaria del Partito democratico Elly Schlein, che Giani affida però a toni più misurati: “Io dico solo che mi fido della mia segretaria”. Il presidente uscente, che non è ancora stato ufficialmente ricandidato dal suo partito, rivendica il lavoro svolto in questi cinque anni e il forte legame con il territorio, a partire dal sostegno dei sindaci. “Non ho fatto nulla per stimolare queste prese di posizione a mio favore, ma ovviamente mi hanno fatto piacere. Hanno agevolato la comprensione di quello che è il mio rapporto con il territorio, di quale sia l’aspettativa di veder continuare il lavoro avviato”, afferma commentando le oltre 100 lettere aperte firmate da primi cittadini toscani che ne chiedono la ricandidatura. Tra questi, ci sono i 29 sindaci su 41 della Città metropolitana di Firenze, oltre a numerosi primi cittadini delle province di Arezzo, Lucca, Pisa, Pistoia, Livorno, Grosseto e Siena. Giani, interpellato su eventuali pressioni da parte di Schlein per farsi da parte, dice: “No, l’ho letto sui giornali, ma non mi interessa il gossip. E poi uno con il mio consenso, con i rapporti che ho costruito in dieci anni, prima da presidente del Consiglio regionale e poi presidente di Regione, non lo sostituisci in un mese”. Nonostante il dibattito interno alla coalizione, Giani si dice fiducioso nella costruzione di un’alleanza ampia, anche con forze che in passato sono state critiche. “I Verdi mi sostengono e da parte di Sinistra Italiana c’è una posizione costruttiva sul mio nome. Quanto ai 5 Stelle, spero che non ci si fermi su polemiche del passato, ma che si voglia guardare avanti”. I contrasti con il Movimento 5 Stelle, soprattutto su grandi opere come il passante dell’alta velocità, l’ampliamento dell’aeroporto di Firenze e il rigassificatore di Piombino, per Giani sono ormai superati: “Sono tutte cose passate su un piano nazionale. Di recente con i 5 Stelle abbiamo collaborato, come sulla legge sul suicidio assistito: mi hanno anche invitato a un loro seminario sul tema. Se restiamo nel merito delle cose da fare, sono convinto che è possibile scrivere insieme un programma per il futuro della Toscana”. Non ha sentito Giuseppe Conte, ma sottolinea un buon rapporto costruito in passato: “Non ci siamo sentiti, ma c’è un rapporto di stima reciproca. Abbiamo collaborato bene quando lui era a Palazzo Chigi, durante il Covid. Vale anche per altri esponenti 5 Stelle, con Alessandra Todde siamo amici, abbiamo lavorato bene anche quando era al ministero dello Sviluppo economico sulla reindustrializzazione di Piombino”. In definitiva, Giani rilancia la sua candidatura come naturale prosecuzione del lavoro iniziato: “Me lo auguro (che mi sostengano, ndr), io condivido l’impostazione della coalizione larga e capisco che ci sia un quadro complessivo con le altre regioni al voto, di cui bisogna tenere conto. Ma è giusto che il candidato in Toscana sia scelto dai toscani”. E per chi, al Nazareno, guarda con freddezza al suo nome, ricorda che i risultati parlano per lui: “Penso che la Toscana su tante cose possa essere un modello per il Pd, da riproporre a livello nazionale. Come sugli asili nido gratis o sulla realizzazione di 77 case di comunità per potenziare la sanità territoriale”.

Il governo ci riprova con il payback, ma alle pmi di dispositivi medici il compromesso non piace
21 ore fa | Mer 9 Lug 2025 04:37

Lo scorso 20 giugno, con l’approvazione del cosiddetto “decreto Economia”, il Consiglio dei ministri ha tentato un nuovo intervento risolutivo sulla lunga e controversa vicenda del payback ... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

Le capriole logiche di Lollobrigida sulla "bioregolazione”
21 ore fa | Mer 9 Lug 2025 04:28

L’ineffabile ministro Lollobrigida ha recentemente dichiarato: “L’uomo si riprende il diritto di essere bioregolatore. Come ho già detto in passato, l’essere umano è l’unico essere senziente, perché è l’unico che riesce a tradurre dati scientifici in azioni concrete. Gli animali anche sono senzienti, nel senso che anche loro soffrono, ma non conosco nessun animale che sulla base di dati scientifici possa regolare l’ecosistema.”  Evidentemente scottato dalle critiche piovutegli addosso per la sua boutade sugli animali che non sarebbero esseri senzienti, il ministro rilancia superandosi, equiparando la percezione senziente alla capacità di procedere usando la scienza: una capriola logica circense da lasciar senza fiato. Ma questo è il meno.                                         Intanto, l’idea di un “diritto” a regolare i processi naturali non trova alcun riscontro in un sistema giuridico: non esiste norma nazionale o europea che assegni all’uomo un diritto di “bioregolazione”, mentre Costituzione e direttive comunitarie sanciscono invece la tutela della biodiversità quale interesse collettivo da preservare. Soprattutto, la nuova perla di saggezza ministeriale traspare nel concetto sotteso: il bioregolatore di diritto è il cacciatore armato di fucile, cartucce e voglia di uccidere, l’unico in grado di “tradurre dati scientifici” sparando a mammiferi o uccelli durante le migrazioni, girando dovunque, anche in proprietà privata, o montando appostamenti in giro per il paese. Un’imbecillità mai sentita prima, figlia di un’antica arroganza umana che crede di poter governare la natura brandendo una doppietta.  Ma poi, se l’uomo è davvero quel grande “bioregolatore” che si afferma, perché allora abbiamo sacrificato habitat, estinto intere popolazioni e travolto interi cicli naturali? Basti pensare che secondo il rapporto Ipbes del 2019 fino a un milione di specie sono minacciate di estinzione, mentre tre quarti delle terre emerse e due terzi degli oceani hanno subito trasformazioni dovute all’attività umana; il Living Planet Report 2024 denuncia una perdita media del 73 per cento delle popolazioni di vertebrati negli ultimi cinquanta anni; il modello dei “planetary boundaries” indica che sei dei nove confini critici – cambiamento climatico, integrità della biosfera, cicli biogeochimici, uso del suolo, risorse idriche e nuove sostanze – sono già stati superati; sul fronte della biomassa il bestiame rappresenta il 62 per cento di tutta la massa dei mammiferi, gli esseri umani il 34 per cento e i mammiferi selvatici appena il 4 per cento; infine, la nostra impronta ecologica supera ampiamente la capacità rigenerativa del pianeta. Questo in generale, ma, se guardiamo specificamente alla caccia, essa ha lasciato sul campo un’infinita scia di disastri ambientali suoi propri ed estinzioni.  La nostra specie, anche quando non cacciava per diporto ma per sopravvivenza, ha quasi certamente contribuito in modo sostanziale all’estinzione della megafauna verificatisi a partire da 50.000 anni fa; ma è ovviamente ancor più inaccettabile pensare che la caccia moderna sia un “bioregolatore” utile. Vediamo qualche esempio di cosa abbiamo “bioregolato” con la caccia. Solo qualche esempio, perché non basterebbe un’enciclopedia a riguardo. Nei secoli scorsi il piccione migratore americano Ectopistes migratorius, un tempo numeroso in Nord America, fu letteralmente sterminato: da enormi stormi all’estinzione a causa della caccia sportiva. L’alca impenne, incapace di volare, e la ritina di Steller, gigantesco mammifero marino scoperto nel 1741, scomparvero entrambi entro pochi decenni dall’inizio della caccia sistematica cui furono sottoposti.  Il lupo marsupiale (tilacino), per il cui sterminio fu addirittura istituita una ricompensa per capo abbattuto, si è estinto nel 1936 in cattività, essendo stato eliminato a fucilate dalla Tasmania già molto prima; del resto anche molte popolazioni di lupo e di altri predatori sono state estinte localmente a fucilate, senza arrivare alla scomparsa della specie (per ora, ma ci sono casi in cui ci si è andati molto vicino). Nei mari, la grande caccia alle balene e agli squali ha decimato le popolazioni di predatori apicali, alterando equilibri che mantenevano sotto controllo focolai algali e reggevano reti trofiche complesse. E vogliamo parlare del dodo, simbolo stesso delle estinzioni, cacciato fino alla scomparsa? Guardiamo al nostro paese: In Italia la caccia moderna provoca danni ingenti e documentati su più fronti, dall’equilibrio degli ecosistemi alla sicurezza stradale, passando per la contaminazione ambientale e la perdita di biodiversità. Sul versante della biodiversità, la pressione venatoria sottrae ogni anno milioni di uccelli allo stato selvatico: come documentato dall’Ispra, tra la stagione venatoria 2017/2018 e quella 2022/2023, in Italia sono stati abbattuti oltre 6 milioni di uccelli. Sempre secondo Ispra, per le 36 specie cacciabili i volumi di prelievo dal 2017 al 2023 superano regolarmente le soglie di equilibrio ecologico, indebolendo popolazioni già fragili.  Ancora più grave è lo stato di conservazione complessivo: il 30 per cento delle circa 250 specie nidificanti in Italia versa in condizioni “cattive” e un ulteriore 33 per cento in stato “inadeguato”, con la caccia tra le principali cause di declino.  A ciò si aggiunge il notorio problema dell’inquinamento da munizionamento: il piombo delle cartucce, riporta sempre Ispra, avvelena diverse specie (soprattutto al vertice della catena alimentare) e contamina suolo e acque, costituendo un rischio anche per l’uomo, perché in ambiente si raggiungono concentrazioni di piombo tali da mandare in tilt gli organismi del suolo – lombrichi, insetti e microrganismi – e da compromettere la catena alimentare fino al nostro piatto. Vi sono poi esempi concreti di come nel nostro paese i famosi interventi di gestione “bioregolatoria” attuati con le doppiette falliscano miseramente. Nei Colli Euganei la cosiddetta “caccia selettiva” al cinghiale è diventata un rito pressoché quotidiano: da più di un decennio squadre di selecontrollori agiscono ininterrottamente sul territorio, ma il risultato è sempre lo stesso, anzi peggiore. Le ricerche hanno dimostrato che abbattere frammenti di popolazione senza alcuna strategia integrata — nessun ripristino dei predatori naturali, nessun coordinamento territoriale, nessuna misura volta a ridurre le fonti di cibo artificiali — non riduce in alcun modo il numero di cinghiali a medio termine. Studi avviati già nel 2015 hanno sottolineato come, nonostante i ripetuti piani di abbattimento e le campagne di controllo messe in campo dal Parco, la densità di Sus scrofa non abbia subito cali stabili, alimentando anzi nuove ondate di danni all’agricoltura e tensioni con i residenti.  Eppure nel solo 2022 sono stati abbattuti più di 3000 capi nei Colli Euganei, con un impegno economico e logistico che ha prosciugato risorse pubbliche senza restituire alcuna riduzione significativa dell’impatto sul grano e sulle coltivazioni. Ogni volta che si vanta il successo di un’operazione, all’indomani il paradosso si ripresenta: nuovi cinghiali occupano i vuoti creati dagli abbattimenti, le loro cucciolate trovano meno competizione e crescono più numerose, costringendo agricoltori e enti locali a ricominciare da capo. Tutto questo dimostra che la caccia umana non è mai stata una forma di bioregolazione: è sempre stata, e continua a essere, un’iperpredazione che frammenta habitat, elimina specie e indebolisce la resilienza degli ecosistemi.  È ora di “bioregolare” certe affermazioni e certe assurdità, di cui alcuni esponenti del governo sembrano essere campioni assoluti; e se, come afferma, il ministro non conosce animali che, sulla base di dati scientifici, siano in grado di regolare l’ecosistema, noi invece, in materia di ecologia, conosciamo molte bestie che quei dati scientifici li ignorano o fingono di ignorarli pervicacemente.

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