Elly Schlein ha ufficializzato la candidatura dell'ex sindaco di Bari, Antonio Decaro in vista delle elezioni regionali in Puglia. “Ringrazio Michele Emiliano per essersi messo con generosità a disposizione del partito e per aver deciso di non candidarsi alle prossime regionali. Continuerà a dare un contributo imprescindibile alla costruzione del futuro della Regione, essendo stato protagonista in questi dieci anni da Presidente di una fase di straordinario sviluppo e innovazione in Puglia. Tutto il Partito democratico gli è riconoscente per il grande servizio svolto per la comunità e siamo certi che la sua competenza continuerà a essere una risorsa importante per noi, ben oltre i confini della Regione che ha guidato in questi anni". Lo ha detto dal palco della Festa regionale dell’Unità e ha aggiunto: "Ci aiuterà anche a scrivere una pagina nuova nel futuro della Puglia accanto alla coalizione progressista che stiamo costruendo e alla candidatura più competitiva che possiamo mettere a disposizione: quella di Antonio Decaro, che ha già dimostrato a Bari le sue grandi doti amministrative".
Strapotere a canestro. In tutta la storia degli Europei di basket, mai si era visto un avvio come quello della Germania nel 2025. Già aritmeticamente qualificata agli ottavi d... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
E' morto a 94 anni Emilio Fede, giornalista e storico direttore del Tg4. Le sue condizioni di salute si erano aggravate negli ultimi giorni. Era ricoverato da alcuni mesi nella Residenza San Felice di Segrate. La notizia della morte è stata confermata dalla figlia Sveva.
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Per Marco Bellocchio è l’ora delle precipitose marce indietro - per non dire brutalmente “voltafaccia” - rispetto alle posizioni che ha coltivato per decenni e lo hanno reso famoso. Nel 1965, a 25 anni o poco più, aveva scritto e diretto “I pugni in tasca”: ritratto in nero, con carneficina, di una famiglia in una grande casa dell’Appennino piacentino. Manifesto molto celebrato contro l’istituzione familiare. Nel 2021 ha girato “Marx può aspettare”: la famiglia intera riunita al ristorante per una ricorrenza, con i vestiti della festa e la bella tovaglia sulla tavola. Tra le malinconie, il ricordo commosso di Carmine, fratello gemello del regista, morto suicida nel 1968. Ora Bellocchio ha dedicato una serie - prodotta da HBO, che sbarcherà in Italia l’anno prossimo, le prima due puntate erano alla Mostra di Venezia - al caso giudiziario che portò all’arresto di Enzo Tortora e alla sua carcerazione iniziata il 17 giugno del 1983 (terminerà un anno e un mese dopo, e nel 1987 il presentatore verrà assolto). Manette all’alba, nessuna spiegazione (quando verranno, saranno pochissimo convincenti). L’Italia che sta a guardare, senza troppo scandalo. “Portobello” era una trasmissione di varia umanità e strepitoso successo popolare. Non c’erano i social, ancora. Ma c’era la maligna convinzione che se sei ricco e famoso devi avere qualcosa da nascondere - uno sporco segreto o qualche scheletro nell’armadio - da sottoporre al tribunale del popolo. Per aggravante, il fatto che Enzo Tortora fosse più colto del medio personaggio televisivo italiano. E votasse liberale, lontano dalla DC e dal PCI.
Arthur Atta è un’anima lunga e sottile, sempre protesa verso il cielo alla maniera di un girasole, solo che il suo sole è il pallone. Lo osserva, lo segue, lo rincorre, sa che non può farne a meno, ma non è geloso, non lo tiene mai tutto per sé, ha la virtù della condivisione. Quando non ha il pallone tra i piedi, Arthur Atta è zompettante e sghembo nel suo vagare avanti e indietro per il campo, sempre pronto a dare una mano, a rincorrere se c’è da rincorrere, ad allargarsi o ad allungarsi nel rettangolo verde. Si muove sulle punte, come se non volesse rovinare troppo l’erba sotto i suoi scarpini. Sfuggente come quei suoi occhi che cercano di nascondersi e scomparire. Quel zompettare sghembo è l’evidenza di una assenza. Quella del pallone. Quando lo ha tra i piedi, l’incedere di Arthur Atta si trasforma, i suoi movimenti si dotano di una grazia sino a pochi istanti prima inimmaginabile. E anche i suoi occhi si fanno presenti, animati da una vitalità diversa. E quelle gambe lunghe e sottili iniziano a muoversi precisi, essenziali, sempre però in punta di piedi. E in punta di piedi Arthur Atta è entrato in tutte le squadre per cui ha giocato. Non è un calciatore alfa il francese, non un ganassa. È un’anima lunga e sottile che bussa e quando gli aprono una porta chiede sempre permesso. Quando è entrato però, sempre con gentilezza e umiltà, prende il centro della scena e non lo molla più. Perché “è un ragazzo intelligente, che riflette costantemente ed è sempre lucido riguardo alle sue prestazioni. Ha sicuramente un enorme margine di miglioramento e un QI calcistico elevatissimo”, disse di lui, all’Equipe, Landry Chauvin, l’allenatore che lo volle nella Nazionale francese Under 20 nel marzo del 2023. Non è cambiato da allora. Nonostante sia passato dalla Ligue 2, la serie B francese, alla Serie A con l’Udinese. Ha bussato, ha chiesto permesso, ha aspettato il suo turno, si è preso il centro della scena. Sempre con il fare garbato di chi sa che prima di chiedere fiducia, serve lavorare e dimostrare di meritarla quella fiducia. Impiegò cinque mesi la scorsa stagione per convincere Kosta Runjaić che era il giocatore adatto al suo modo di giocare. L’allenatore lo utilizzò in molti ruoli, gli concesse molte presenze e pochi minuti. Poi, nel momento più difficile della stagione, decise che un giocatore così, non poteva non giocare. Giocò all’ala e in attacco, sulla trequarti e nel mezzo del centrocampo. Capì che quello era il suo posto. A tal punto che in estate ha deciso di costruirci una squadra attorno. La stessa capace di battere l’Inter a San Siro grazie a un gol di Arthur Atta. Anche quest'anno c'è Olive, la rubrica di Giovanni Battistuzzi sui (non per forza) protagonisti della Serie A. Piccoli ritratti, non denocciolati, da leggere all'aperitivo. Qui potete leggere tutti gli altri ritratti.
Avranno anche scelto sinogrammi e caratteri cirillici per dare abbrivio al loro nuovo ordine mondiale, i leader non allineati che si ritrovano a Shangai, ma la loro ricerca della discontinuità si scontra con la foto che ritrae le first lady: mogli e figlie dei leader cinesi, iraniani, indonesiani, azeri, eccetera, col sorriso stampato, battono le mani davanti a una pletora di bambine. È una foto molto anni Cinquanta. È, soprattutto, un’immagine che mostra plasticamente ciò che stona, ciò che manca dal vertice asiatico. Nell’unico periodo in cui l’Europa è stata autenticamente moderna, il Settecento, oltremanica regnava la regina Anna, sul sacro romano impero Maria Teresa d’Austria e, addirittura, in Russia Caterina II; erano giunte sul trono chi grazie a favorevoli soluzioni compromissorie, chi a seguito di una pragmatica sanzione per preservare la dinastia, chi facendo fuori il marito. Per loro tramite l’Europa ha messo in atto ciò che Platone già aveva dimostrato inoppugnabilmente duemila anni prima, nel quinto libro della Repubblica, scrivendo che il pieno accesso delle donne alle cariche di governo avrebbe raddoppiato il numero di persone meritevoli pronte a garantire il bene dello Stato. È merito di quelle lontane sovrane settecentesche se, ai nostri tempi, una Meloni, una von der Leyen, una Merkel o una Thatcher non sono state confinate a battere le mani nelle foto decorative (e, se ve lo state chiedendo, fate bene: no, l’America non ha mai avuto una monarchia, quindi non ha mai avuto una regina, quindi non è mai stata governata da una donna). Dal vertice di Shangai manca la cultura europea, ossia la continuità innovativa che congiunge l’antica Grecia all’Illuminismo; ed è per questo che il nuovo ordine mondiale sembra già così vecchio.
“Che facciamo dopo il passo indietro di Michele Emiliano dalla candidatura al Consiglio regionale? Noi non ritiriamo Nichi Vendola. Non è mica un panno steso”: una fonte della segreteria nazionale di Sinistra italiana fornisce un ulteriore elemento alla telenovela estiva del campo largo pugliese. Il presidente nazionale del partito progressista non si tocca e (al momento) non è in discussione come protagonista dellla campagna elettorale d'autunno. La diatriba interna alla coalizione - generata dal veto promosso da Antonio Decaro, eurodeputato dem e candidato in pectore come governatore, alle discese in campo di Emiliano e Vendola - ha rallentato la risoluzione del dossier. Ieri la svolta con il ritiro di Emiliano (ha rimesso la sua candidatura alla decisione di Elly Schlein dopo una visita mattutina nella sua abitazione del capogruppo al Senato Francesco Boccia). Avs, dopo le dichiarazioni di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni nei giorni scorsi, tiene dunque il punto e mantiene in campo la candidatura di Vendola, passaggio che i dirigenti del partito raccontano addirittura come “richiesto” un anno fa dallo stesso Decaro. In un post Nico Bavaro, responsabile nazionale per il Sud di Si, aveva detto chiaramente a Decaro che stava “sbagliando traiettoria”: “Non è il candidato presidente della regione che decide chi si candida dentro i partiti. Sono i partiti che decidono i candidati consiglieri. Non puoi venire in casa nostra a dire che non possiamo candidare Nichi”. E così, dopo un mese di trattativa e di stallo, con domani in programma un incontro tra Schein, Fratoianni, Bonelli e Conte, alla festa a Roma di Avs, il quadro pugliese vede sempre Vendola in campo (e Emiliano non candidato ma indicato come assessore nella prossima giunta regionale di Decaro). E Nikita interverrà domenica alla festa regionale dell’Unità ad un dibattito sulla pace in Medio oriente. Molto rumore per nulla?
Mosca lancia la sua ultima provocazione colpen... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Hanno ottenuto loro candidati alle regionali. E dove non li hanno ottenuti hanno posto tutta una serie di condizioni perché il candidato presidente si uniformi ai valori del M5s. Così, dalla Toscana alle Marche passando per la Puglia (dove però i contorni per adesso sono molto più fumosi e incerti) e la Calabria, il Movimento guidato da Giuseppe Conte ha sì fatto un passo di lato per concedere la ribalta a esponenti di altri partiti del campo largo (il Pd). Ma sempre con la pretesa di condizionarne il lavoro, sin dalla fase della campagna elettorale. Lo scorso mese fu lo stesso presidente del M5s a concedere una specie di "grazia" a Matteo Ricci, candidato presidente nelle Marche coinvolto in un'inchiesta giudiziaria. E' vero che alla fine i Cinque stelle sono passati oltre l'indagine che vede l'ex sindaco di Pesaro indagato per la gestione di alcuni appalti comunali con l'ìpotesi di reato di abuso d'ufficio. Ma sono arrivati al nulla osta solo dopo aver studiato a fondo le carte (lo ha fatto personalmente l'ex presidente del Consiglio). E soprattutto, solo dopo aver ottenuto da Ricci tutta una serie di rassicurazioni, a partire proprio dal tema della gestione degli appalti (che forse da queste parti vale sempre la massima popolare "fidarsi è bene e non fidarsi è meglio"). "Chiederemo a Ricci, anche negli affidamenti diretti, una pubblicazione preventiva” degli appalti “sul sito della regione, per garantire la massima trasparenza e un codice etico che possa prevenire conflitti di interessi", spiegò allora Conte. Ottenendo sponde dall'europarlamentare dem: "Concordo con lui nel rafforzare in regione i presidi di legalità, di trasparenza e di controllo su affidamenti diretti, nomine e consulenze". Ma nelle Marche il condizionamento dei Cinque stelle non ha prodotto risultati solo dal punto di vista procedurale, bensì anche nei contenuti del programma elettorale da sottoporre agli elettori. Tanto che, ancor prima dì presentare ufficialmente la sua candidatura, era stato lo stesso Ricci a voler rassicuare i pentastellati: "Non faremo alcun nuovo inceneritore". E poco gli è importato che in realtà un altro sindaco del Pd come quello di Roma, Roberto Gualtieri, quell'infrastruttura la consideri essenziale per smaltire il ciclo dei rifiuti della capitale. Rassicurazioni reiterate nel corso delle ultime settimane, insieme a una serie di impegni generici su "più energia rinnovabile e sanità pubblica". Anche in Toscana, dopo un lungo travaglio, i Cinque stelle hanno concesso il loro beneplacito alla ricandidatura di Eugenio Giani. E già dalle parole di un mesetto fa di Conte si capiva quali potessero essere le pretese da avanzare: "Un sostegno a Giani sarebbe un sacrificio notevole". Per questo a fine agosto il presidente uscente e i Cinque stelle locali hanno sottoscritto un accordo di programma con 23 punti che ricalcano alcune delle battaglie storiche del M5s. Per esempio, si dice definitivamente no a una nave rigassificatrice ormeggiata nel porto di Piombino e ci si impegna a "pervenire a una intesa, chiara e organica, sui nuovi impianti". A Giani i Cinque stelle chiedono poi di adottare una specie di reddito di cittadinanza regionale, con "l’adozione di interventi integrativi rispetto al sistema nazionale Adi (Assegno di inclusione), che si è rivelato insufficiente a sopperire alla crisi sociale in corso”. In più “la regione si farà promotrice di studi, ricerche e interventi per favorire, per il suo personale diretto e per i soggetti privati, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e la riduzione della settimana lavorativa", recita ancora il documento sottoscritto dal M5s per entrare a far parte del campo largo in Toscana. Ma i Cinque stelle sfoderano anche un altro dei loro cavalli di battaglia: lo stop a qualsiasi procedura autorizzativa della base Nato a Rovezzano, alle porte di Firenze. Ragion per cui Calenda, leggendo la serie di richieste, ha già fatto sapere che non farà parte della coalizione, "perché non ci facciamo dettare il programma da Paola Taverna". Persino in Calabria, dove hanno portato a casa la candidatura del loro Pasquale Tridico, stanno riuscendo a far ingoiare un boccone indigesto almeno a parte degli alleati: l'inserimento nelle liste della professoressa Donatella Di Cesare, con posizioni che almeno un qualche imbarazzo l'hanno provocato nelle componenti più riformiste della sinistra (Ernesto Maria Ruffini, partito con i suoi comitati civici, ha definito la candidatura "inaccettabile"). E una serie di condizioni i Cinque stelle promettono di porle anche in Puglia, dove la candidatura di Antonio Decaro non si è ancora ufficialmente sbloccata. Come? Stilando un ulteriore protocollo sulla legalità. Che almeno in parte possa servire al M5s a ricordare agli alleati che quando è scoppiato lo scandalo che coinvolse gli ultimi mesi dell'amministrazione barese, i duri e puri fossero pur sempre loro. E non gli altri.
Qui l'archivio con tutte le altre vignette di Makkox per il Foglio. ... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Dopo il recente episodio che ha coinvolto la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in un attacco ibrido russo con interferenze Gps durante un volo in Bulgaria, il governo italiano torna a discutere della necessità di secretare i voli di Stato per motivi di sicurezza. Il caso von der Leyen, che secondo Bruxelles rientra in una strategia di guerra ibrida da parte di Mosca, ha acceso l’attenzione anche del Copasir, che ha chiesto chiarimenti su altri episodi simili. Ma nell'esecutivo italiano c'è cautela nell'indicare la Russia come responsabile dell'attacco. "Non mi vedo la Federazione russa far cadere l’aereo di von der Leyen, ma piuttosto fare attacchi a banche, sistemi pubblici, aeroporti e produzione di energia; colpire un livello politico così alto non credo rientri nella strategia russa, sarò pronto a ricredermi se verrà dimostrato il contrario", ha detto il ministro Crosetto intervenuto a Quarta Repubblica. "La guerra ibrida è fatta di attacchi hacker: ogni giorno ce ne sono centinaia, li subisce l’Italia come gli altri paesi occidentali. Migliaia sono anche gli elementi di disinformazione attraverso bot e intelligenza artificiale, per muovere verso una parte o un’altra l’opinione pubblica: questa guerra si aggiunge a quella commerciale e tecnologica, che può fare altrettanto male". Il ministro della Difesa ha proposto misure per limitare la tracciabilità degli spostamenti ufficiali, come la riduzione delle informazioni pubblicate sul sito di Palazzo Chigi o la rimozione dei voli dai portali specializzati. In base al decreto del 6 luglio 2011, i voli dei ministri devono essere resi pubblici, salvo eccezioni motivate da “ragioni di stato”, una clausola che ora potrebbe tornare centrale. L’esecutivo sta anche valutando il blocco della visibilità su altri siti simili a Flightradar, dove l’aereo di Palazzo Chigi, pur rimosso da tempo da quella piattaforma, resta tracciabile. Crosetto ha annunciato l’avvio in Italia, in collaborazione con l’americana L3Harris, di un centro multisensoriale per il collaudo e la calibrazione di sistemi di guerra elettronica e intelligence. Von der Leyen, nel frattempo, ha confermato l’impegno europeo con l’annuncio del successo del piano Safe da 150 miliardi per il riarmo, ma l’esaurimento dei fondi segnala l’urgenza di nuove risorse per rafforzare la difesa comune contro minacce sempre più sofisticate.
Appuntamento per il 17 settembre ad Ancona. La premier Giorgia Meloni, i suoi vice Matteo Salvini e Antonio Tajani, e Maurizio Lupi si ritroveranno sullo stesso palco per chiudere la campagna elettorale di Francesco Acquaroli, il governatore meloniano in ceca del bis in regione. Le Marche sono la prima regione ad andare al voto in autunno, il 28 e 29 settembre. La contesa d'altra parte non è scontata, i sondaggi hanno fotografato un testa a testa, e rappresenta un viatico che i leader di centrodestra ritengono fondamentale in quanto potrebbe avere effetti anche sulle altre contese regionali, tanto che secondo alcuni retroscena la scelta degli altri candidati per le regionali - dalla Puglia alla Campania al Veneto - potrebbe dipendere dall'esito della sfida tra Acquarolii e Ricci. L'attenzione è massima. Lo scorso 4 agosto i leader di centrodestra erano già stati sul territorio. In quell'occasione la premier Meloni aveva anche annunciato l'estensione della Zes - zona economica speciale - nelle Marche, provocando la reazione del centrosinistra che aveva parlato di "marchetta elettorale". Per tutta l'estate inoltre ministri ed esponenti di primo piano hanno battuto la regione per sostenere Acquaroli, sul cui profilo nella prima parte della campagna elettorale erano emersi dei dubbi nello stesso centrodestra. Considerato debole, in particolare dal punto di vista comunicativo, ne confronto con Matteo Ricci: anche per questo è stato affiancato da Italo Bocchino, abile polemista e assidua presenza televisiva per perorare la causa di governo. Ieri intanto a Sirolo, provincia di Ancona, è arrivato Matteo Salvini che ha presentato i candidati della Lega per le regionali. Oggi sarà il turno di Antonio Tajani a Civitanova Marche. Mentre sul fronte opposto è attesa Elly Schlein, ad Ancona, a Fabriano e a Potenza Picena. Angelo Bonelli sarà invece a Pesaro. Al momento non è in programma un evento con tutti i leader del centrosinistra. Ma dallo staff di Ricci fanno sapere che di tempo ce n'è ancora. La possibilità dunque non è esclusa. Conte, Schlein, Bonelli e Fratoianni saranno invece insieme domani a Roma per la festa di Avs.
Cagliari, Campobasso, Catanzaro, Firenze, Palermo, Potenza, Reggio Calabria e Taranto: sono queste le sedi di Corte d’appello più in difficoltà nel raggiungimento degli obiettivi del Pnrr s... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Le immagini registrate dagli elicotteri dell’esercito afghano mostrano una distesa di villaggi distrutti, fango e macerie, quel che resta dopo che un
Mentre il presidente della Federazione russa Vladimir Putin ieri si faceva fotografare insieme con il leader cinese Xi Jinping e il primo m... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Al direttore - “Chi fa da sé fa per tre”, recita un vecchio proverbio. In parole semplici, significa che chi agisce da solo ottiene risultati migliori di chi agisce in gruppo. E’ proprio così, ... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
La chiamano gestione “leggera”. Lo accusano di “superficialità”. I vertici di Fratelli d’Italia in queste ore hanno un diavolo per capello. Ce l’hanno con il presidente della Camera Lorenzo Fontana... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
A meno di sorprese dell’ultima ora, in settimana la Commissione Europea dovrebbe varare i testi finali di due accordi di liberalizzazione commerciale molto attesi, come primo passo di diver... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Alla fine di agosto, i giudici federali hanno nuovamente censurato la nuova politica tariffaria degli Stati Uniti. Come la corte di primo grad... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
L’allegra polemica di fine estate tra la Francia e l’Italia
Pubblichiamo un estratto del libro di Cecilia Sala “I figli dell’odio” (Mondadori Strade Blu) da oggi in libreria. Quando arrivo a
Perché alcuni fra noi si impegnano a divulgare la scienza? Perché, come argomenta Arthur Caplan in un recente editoriale, abbiamo contribuito noi stessi alla situazione in cui la scienza viene attaccata e pochi sentono il dovere di difenderla. Caplan descrive senza giri di parole un paradosso: mentre la scienza produce risultati di enorme valore pubblico, negli Stati Uniti è sottoposta a un fuoco incrociato – federale e statale – che ne mina l’autonomia, tenta di intimidire le riviste, scredita gli scienziati nelle sedi istituzionali e li isola nell’opinione pubblica. Questo è anche l’esito di una colpa interna, coltivata a lungo. Nella comunità scientifica, abbiamo per secoli trattato la comunicazione come un’attività ancillare, opzionale, spesso sospetta. Abbiamo persino coniato un’etichetta sprezzante per chi prova a parlare con i cittadini: “saganizzazione”, dal grande scienziato e divulgatore Carl Sagan, che vide la sua carriera interrotta più volte proprio perché la sua attività presso il pubblico appariva “sospetta” ai colleghi. “Saganizzazione” è il marchio con cui si insinua che chi comunica non possa essere un ricercatore serio. È qui il punto dolente: se la cultura scientifica disincentiva il contatto con la società, non sorprende che, quando arrivano gli attacchi, la società non sappia riconoscere e proteggere il metodo che la tutela. Caplan elenca effetti concreti di questa miopia. L’ostilità politica non si limita ai tweet: prende la forma di pressioni e incursioni nelle sedi della conoscenza, dall’azione di pubblici uffici verso le riviste mediche per ottenere documenti e influire sui processi editoriali, fino alla rimozione o marginalizzazione di competenze nelle strutture pubbliche. In parallelo, il lavoro degli scienziati viene raccontato da altri, spesso con il repertorio delle semplificazioni, degli slogan e dei sospetti. Quando il dibattito si sposta su quel terreno, la scienza, che vive di trasparenza metodologica, di prove cumulabili e di correzione degli errori, appare come un blocco opaco e arrogante. È in quel vuoto – creato dalla nostra latitanza – che prosperano le narrazioni ostili e le decisioni contro-evidenza. La “saganizzazione”, usata come stigma all’interno della comunità scientifica, diventa il segnale di una responsabilità collettiva: abbiamo reso costosa, in termini di carriera e reputazione, l’unica cosa che potrebbe renderci meno vulnerabili, e cioè spiegare chi siamo, come lavoriamo, dove sono i limiti e perché cambiare idea alla luce di nuove prove non è una debolezza ma la prova di forza del metodo. La diagnosi è netta e riguarda tre livelli intrecciati. Il primo è culturale: finché giudicheremo la divulgazione con sufficienza, continueremo a offrire al pubblico l’immagine peggiore possibile di noi stessi. Il secondo è istituzionale: finché università, enti di ricerca e riviste non riconosceranno comunicazione e trasparenza come parte del mestiere, chi fa buona scienza continuerà a essere scoraggiato dal farla conoscere bene. Il terzo è politico: se non abbiamo radici sociali, se non c’è fiducia costruita nel tempo, ogni intervento legislativo o amministrativo che ci colpisce passerà senza incontrare resistenza informata. L’esito prevedibile di un’abitudine - parlare solo ai pari, dare per scontato che basti il circuito delle pubblicazioni specialistiche, ritenere che i fatti, prima o poi, si impongano da soli – ha condotto a credere che la comunicazione sia una roba riservata a chi, fallito nella ricerca, ha tempo da dedicare ad altre attività. Non è così. I fatti diventano bene comune solo se qualcuno si prende la responsabilità di renderli comprensibili, verificabili e pertinenti per la vita delle persone. Ecco perché è necessario impegnarsi a divulgare la scienza: non si tratta di trasformare il lavoro scientifico in spettacolo (come purtroppo pure avviene), ma di togliere terreno alla caricatura che lo rende fragile. Divulgare, in questo senso, significa correggere la “stupidità” che Caplan rimprovera alla comunità scientifica: ricucire il legame con i cittadini, mostrare i passaggi del ragionamento, chiamare le incertezze per nome, rendere visibile il processo che porta a una conclusione e i motivi per cui, talvolta, quella conclusione deve essere rivista. È un lavoro lento e a tratti anche molto duro, vista la mole di insulti, di rabbia e di odio che suscita in chi della scienza è nemico, ma è l’unico che, quando arriva l’attacco, consenta a chi non è scienziato di riconoscere dove stanno i fatti e perché valgono. La divulgazione è parte integrante delle responsabilità della comunità scientifica. Alla mia domanda iniziale, la risposta è dunque semplice e, alla luce di quanto scrive Caplan, obbligata: mi impegno a divulgare perché l’assenza di divulgazione ha già presentato il conto; perché solo invertendo la cultura della “saganizzazione” possiamo costruire alleanze sociali capaci di difendere il metodo quando serve; perché spiegare bene è l’unico modo onesto di chiedere al pubblico la fiducia necessaria al prosperare dell’impresa scientifica.
A proposito dell’appello cinematografaro su Gaza, ieri Andrea Minuz ha ripescato un bel raccontino di Carlo Fruttero sulla reazione ai fatti d’Ungheria. Propongo di rileggere anche una piccola satira di Fruttero e Lucentini, Guerra di lacrime (la trovate nella Prevalenza del cretino), che mi sembra almeno altrettanto attuale: “Una straziante guerra di lacrime serpeggia da qualche settimana nei più illuminati ambienti d’Europa. ‘Perché non piangete sulla Cambogia?’ ‘Nessuno può accusarci di non aver pianto sul Vietnam!’ ‘Chi non ha pianto su Praga non ha il diritto di piangere sul Libano’ ‘Se piangevate per i biafrani, dovreste ora piangere per gli afgani’ ‘Facciamo onestamente l’autocritica: il nostro pianto per l’Iran è meno copioso del nostro pianto per il Cile’. (…) Una fortuna per i fabbricanti di fazzoletti. Già molto prima di questa salata alluvione ci chiedevamo quanto soffra in realtà, veramente, concretamente, se così si può dire, questa strana ma diffusissima specie di homo lacrimans geopolitico”. Queste “ambasce vicarie”, concludono Fruttero e Lucentini, “bastano misteriosamente a dargli una perfetta coscienza d’altruista planetario, il senso di una superiorità sia morale sia intellettuale sul gretto volgo prevalente attorno a lui. Lui solo spazia col pensiero sui continenti e le isole, vola misericordioso sui campi di battaglia, accorre nelle giungle e nelle savane, s’inginocchia tra i caduti, soccorre idealmente i moribondi, i profughi, i famelici. Sempre restando, per causa di forza maggiore, seduto nella sua poltrona. Mai lo sfiora il dubbio che le sue emozioni siano spurie, le sue lacrime politicamente selettive, i suoi singulti partigiani e omissivi, che tutto il multiforme e terribile patire del mondo gli si presenti di volta in volta come una mano di carte, da tenere o scartare secondo la loro utilità, col cuore di pietra di un giocatore di poker; di uno di quei supremi giocatori di poker che muovono eserciti e annullano popoli e dai quali egli si sente così radicalmente diverso”.
Gli attacchi di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023, che hanno causato oltre 1.200 morti, sono stati celebrati dall’organizzazione Samid... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti