Giovedì 18 giugno sono sette giorni che Israele e la Repubblica islamica dell’Iran s... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Se una cavatina di traccia motivazionale vale l’altra, tanto è sempre pescare dal mazzo, anziché andare a scovare (con ChatGPT?) lo storico inglese Piers Brendon – “Gli anni Trenta. Il decennio che... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Elena è riuscita nell’intento di non far ritirare la pubblicità a Gagliotti, ma lui continua a tentarla e Marina la mette in guardia. Mentre Michele inizia a unire i puntini che lo collegano alla scomparsa dell’operaio. Gimmy ha finalmente completato una verifica in classe senza copiare, e spera che il buon risultato possa servire a cancellare la punizione che gli impedisce di andare a vedere il suo rapper preferito, evento unico e raro. Ma Nico è irreprensibile, e quindi il bambino pensa bene di violare il domicilio e andarci di nascosto senza permesso. Un altro capitolo nel frattempo si apre con Samuel e la sua nuova fiamma, in un siparietto di gelosie ed equivoci che donano una vena frizzante e leggera (a tratti stupida) alla pesantezza delle puntate con protagonisti Luca e Giulia. E speriamo non torni pure il loro cagnolino.
Stamattina un attacco hacker ha interrotto i servizi della Bank Sepah, la più grande banca iraniana legata al Corpo delle guardie della rivoluzione islamica e all’esercito, dal 2018 sanzionata dal dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, rendendo impossibile agli iraniani pagare con la carte, prelevare e accedere ai propri conti. Poco dopo il gruppo Gonjeshke Darande, “Predatory Sparrow” in inglese (passero predatore), ha rivendicato su X l’attacco reso possibile grazie all’aiuto di “coraggiosi iraniani”, affermando di aver distrutto i dati della banca, “un’istituzione che ha aggirato le sanzioni internazionali e ha utilizzato il denaro del popolo iraniano per finanziare i terroristi per procura del regime, il suo programma missilistico balistico e il suo programma nucleare militare. Questo è ciò che accade alle istituzioni dedite a sostenere le fantasie terroristiche del dittatore”. Poi è toccato a Nobitex, il più grande exchange di criptovalute dell’Iran: il gruppo ha mostrato la prova del furto di fondi crittografici per un valore di 48 milioni di dollari in criptovaluta con la frase: “Aggirare le sanzioni non paga”, e una lista di tutto ciò che rappresenta l’exchange: “al centro degli sforzi del regime per finanziare il terrorismo in tutto il mondo e lo strumento preferito per violare le sanzioni”. Gonjeshke Darande ha una lunga storia di attacchi alla Repubblica islamica dell’Iran, è noto come gruppo di “hacktivisti”, perché oltre agli hackeraggi ogni operazione è accompagnata da un messaggio contro il regime degli ayatollah e una certa attenzione nell’evitare di mettere in pericolo il popolo iraniano (alcuni attacchi hanno avuto effetti non solo digitali ma fisicamente distruttivi). Nel giugno del 2022 un hackeraggio del gruppo ha causato un grave incendio in un’acciaieria, su Telegram ha rivendicato il fatto che la fabbrica fosse vuota prima di lanciare l’attacco. A dicembre 2023, due mesi dopo l’attacco di Hamas nel sud di Israele, il gruppo ha preso di mira il settore energetico iraniano, mandando in tilt la maggior parte delle stazioni di servizio del paese e hackerando i cartelloni pubblicitari con la scritta: “Khamenei, dov’è il nostro carburante?”. Secondo esperti informatici e alcune fonti della difesa americana gli attacchi di “Predatory Sparrow” sarebbero così sofisticati da non poter prescindere dal governo di Israele, che però ufficialmente non ha mai riconosciuto il proprio coinvolgimento. Dopo l’aggressione di Hamas il 7 ottobre, il gruppo aveva scritto: “Questo attacco informatico è una risposta all’aggressione della Repubblica Islamica e dei suoi alleati nella regione. Khamenei, giocare col fuoco ha un prezzo”.
Per leggere la versione senza paywall, iscriviti alla newsletter "Di cosa parlare stasera a cena" a questo link: è gratis! Donald Trump consulta, ascolta e smentisce i suoi consiglieri sul possibile intervento americano contro l'Iran. Ma forse se ne può ridimensionare la portata, senza togliere nulla sull'importanza del sostegno americano a Israele. Ormai è di pubblico dominio che la potentissima bomba capace di distruggere bunker in profondità è nella disponibilità dell'esercito americano e potrebbe dare la svolta finale all'attacco israeliano con l'eliminazione di Khamenei e soprattutto delle infrastrutture nucleari più protette. Ma è anche vero che Israele dispone di armi meno potenti ma ugualmente efficaci se usate in quantità adeguata e che, con il controllo aereo ormai acquisito, anche un'azione di commando (che avrebbe un forte pregio psicologico e di immagine) diventa realizzabile Le tre "cose" principali Fatto #1 Mentre continuano gli attacchi mirati, in una guerra che può segnare un punto di passaggio nella storia del Medio Oriente Anche se nella strategia israeliana c'è forse meno interesse di quanto venga detto (o insinuato in modo propagandistico) per il futuro assetto politico iraniano. La democrazia e lo stato di diritto, se li vogliono, li devono conquistare e difendere gli iraniani. Altrimenti, cosa più probabile, sarà qualche congiura a portare al potere nuovi dittatori, indeboliti però nella capacità di destabilizzare altri paesi Fatto #2 Gli sforzi di Volodymyr Zelensky per portare in uno schema razionale le scelte ondivaghe di Trump e coordinarle con il quadro europeo Fatto #3 I giapponesi di Honda fanno i razzi come e forse meglio di quelli di Musk Oggi in pillole Gli sviluppi del Green deal europeo regalano spazi di manovra politica alla destra I patrimoni mondiali si proteggono con l'oro Attenti al conto corrente Sempre grazie a Alessandro Orsini, protagonista, e Luciano Capone, magnifica spalla, per i momenti di comicità che ci regalano Maturare, con rispetto parlando
Sono passati più di vent’anni dall’arrivo nelle sale del cult che ha rivoluzionato il genere dello zombie-movie “28 giorni dopo”. E, da allora, di cose simili a quelle del film se ne sono concretizzate un bel po’: una pandemia su scala globale, ad esempio. L’anestetizzazione sociale che ha “zombificato” sempre di più l’umanità con una vera e propria schiavitù digitale, tra smartphone e social. O, ancora, un paese intero (il Regno Unito) che si è staccato formalmente, economicamente e anche un po’ socialmente dal resto della terraferma con la Brexit. Ora, quindi, dovrebbero essere più che chiari i motivi che hanno spinto il regista britannico Danny Boyle, premio Oscar per The Millionaire, a tornare in prima persona dietro la macchina da presa per riflettere nuovamente sull’apocalisse con “28 anni dopo”, terzo capitolo della saga iniziata nel 2002 in uscita nelle sale italiane il 18 giugno di quest’anno. “Quello che ho immaginato 23 anni fa, in realtà, non è nulla rispetto alla realtà che c’è lì fuori ora” dice Boyle. E qui il regista torna infatti, accompagnato alla scrittura da Alex Garland come nel primo capitolo, a riflettere su un’Inghilterra post-umana che non somiglia a un futuro distopico, ma a un presente appena esasperato: tra la gestione autoritaria della crisi e la deumanizzazione, con un accenno anche alla divisione in classi, all’intelligenza artificiale e al digital divide. Perché “Il mondo si sta anestetizzando all’orrore”, ci dice Boyle. “Ma se qualcuno non ha una mente, non vuol dire che non abbia un’anima”
Alfred Brendel se ne va a 94 anni lasciando tutti in silenzio. Tre ricordi riaffiorano immediati dopo aver letto la notizia. Nel 2008 al Teatro alla Scala il concerto d’addio con m... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Decenni or sono, aprendo una puntata della Domenica Sportiva mentre si giocava quell’ardito esperimento che fu il Mundialito (formalmente Coppa supermondiale clubs), Beppe Viola esordì con le parole: “In questa domenica senza calcio”. Sottintendeva che il calcio fosse anzitutto organizzazione e legittimità, e che pertanto un sedicente torneo concordato fra squadre, ma senza una cornice istituzionale, equivalesse alla partitella dei ragazzini in cortile: un’imitazione del calcio, non il calcio vero. Il Mondiale per club che sta allietando le nostre nottate è noiosissimo e sfiancante, però gli va riconosciuto il crisma dell’organizzazione e della legittimità, essendo stato ideato e vidimato dalla Fifa, volenti o nolenti i tifosi. Se l’iniziativa è in qualche modo criticabile, credo ci sia un altro motivo. Da sempre, infatti, il calcio si fonda sul rilancio della sfida. I primi tornei facevano scontrare i campioni in carica con chi prevaleva nelle eliminatorie fra le restanti squadre. Poi si provò a vedere cosa sarebbe successo se si fosse messa a confronto ciascuna squadra con tutte le altre, ottenendo i campionati nazionali. Si pensò di far sfidare le vincitrici dei vari campionati, e nacque la Coppa dei campioni; di far competere la campionessa europea con quella sudamericana, ed ecco la vecchia Coppa intercontinentale; di coinvolgere anche le campionesse degli altri continenti, e fu la Coppa del mondo per club. Il pachidermico torneo di quest’estate è l’ultima Thule, una versione extralarge che trasforma in realtà le più sfrenate fantasie dei ragazzini o i più lambiccati tornei che si potevano organizzare nei videogiochi selezionando le migliori squadre del mondo. Ci baloccheremo così per qualche anno, ma poi come faremo a rilanciare la sfida? Organizzando partite interplanetarie? Giocando contro i robot? Inventandoci nuove regole sempre più arzigogolate e circensi? Allora sì che rischieremo di restare senza calcio.
L'ayatollah Ali Khamenei dice che l'Iran "non si arrenderà e che qualsiasi intervento militare" da parte degli Stati Uniti "causerà senza dubbio danni irreparabili". Il discorso televisivo di oggi della Guida suprema iraniana cancella ogni illusione sul fatto che la Repubblica islamica fosse sul punto di chiedere la pace. Il conflitto in medio oriente ha ormai raggiunto un punto critico e ciò che Donald Trump deciderà di fare o non fare condizionerà gli sviluppi futuri della regione. Il regime iraniano è in gravissime difficoltà, colpito al cuore non solo dai continui attacchi aerei israeliani degli ultimi giorni, ma anche dallo smantellamento dei suoi proxy in Libano, Siria e a Gaza. Ma può comunque provocare ancora molti danni. Come ha scritto Frank Gardner, inviato di guerra per la Bbc ed esperto di sicurezza internazionale, se gli Stati Uniti attaccassero l'Iran, in cima alla lista degli obiettivi iraniani ci sarebbero le numerose basi americane nel Golfo. Il quartier generale della Quinta Flotta della Marina americana a Mina Salman, in Bahrein, è un obiettivo ovvio, ma lo sono anche quelle in Iraq e Kuwait. Se il regime iraniano sentisse che la sua stessa sopravvivenza è in pericolo, o se decidesse che i suoi vicini arabi sono complici dell'attacco, potrebbe essere tentato di colpire gli impianti di desalinizzazione, i terminali di esportazione del petrolio o addirittura di minare lo Stretto di Hormuz, soffocando quasi il 30 per cento delle riserve mondiali di petrolio. Il massiccio attacco con droni del settembre 2019 contro l'industria petrolchimica saudita è un esempio di una vulnerabiltà che potrebbe mettere in crisi l'economia globale. Del resto quella di Trump è una scelta che ha degli ostacoli anche interni. Dopo un incontro con i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale tenutosi martedì nella Situation Room della Casa Bianca il presidente americano starebbe valutando la possibilità di intervenire militarmente. Un potenziale obiettivo potrebbe essere il sito di arricchimento dell'uranio di Fordo, che si trova in profondità nel sottosuolo, ma solo gli americani hanno la bomba da 13 tonnellate in grado di distruggerlo. Ma se da una parte i sostenitori della dottrina "America First" gli ricordano che si è impegnato a tenere gli Stati Uniti fuori da "guerre eterne" come quelle in Afghanistan e Iraq, altri falchi del partito stanno incitando Trump ad attaccare l'Iran. A volere fare un nome di peso, per esempio, il senatore della Carolina del Sud Lindsey Graham – consigliere informale del presidente in politica estera durante il primo mandato – ha detto che è nell'interesse della sicurezza nazionale degli Stati Uniti impedire all'Iran di ottenere una bomba nucleare. La situazione sul campo intanto è sempre critica. Nella notte Israele ha colpito due siti iraniani di produzione di centrifughe per l'arricchimento dell'uranio, il complesso Tesa di Karaj e il Centro di Ricerca nucleare di Teheran. La conferma arriva dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) ha informazioni secondo cui i due impianti, sono stati colpiti. "Entrambi i siti erano sottoposti a monitoraggio e verifica da parte dell'Aiea nell'ambito del Jcpoa", scrive l'agenzia Onu su X. "Nel sito di Teheran, è stato colpito un edificio dove venivano prodotti e testati rotori per centrifughe avanzate. A Karaj, sono stati distrutti due edifici dove venivano prodotti diversi componenti per centrifughe". Non solo siti nucleari, ma anche un'università di Teheran è stata presa di mira dagli attacchi di questa notte. Lo riportano i media britannici, precisando che si tratta della Imam Hossein, un ateneo finanziato dai pasdaran alla periferia est della capitale. Le ultime immagini satellitari che arrivano dalla società Maxar sembrano mostrare ingenti danni alla base missilistica di Tabriz, con almeno nove edifici e due ingressi di tunnel distrutti. Molti altri sono gravemente danneggiati. Altre foto satellitari mostrano i danni all'aeroporto di Mashhad, seconda città per popolazione che si trova nell'est del paese, al confine con il Turkmenistan.
Banca d'Italia entra a gamba tesa sul dibattito del nucleare, analizzando quali effetti produrrebbe una sua possibile reintroduzione nel mix energetico nazionale. Il paper
Alla fine lo scudetto del basket è andato a chi ha saputo costruire la miglior squadra, non a chi ha speso notevolmente più degli altri. È stata la vittoria degli uomini contro quella dei s... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Ieri il presidente Donald Trump si è trovato davanti a una delle decisioni più importanti della sua presidenza: entrare in guerra con l'Iran oppure no. Questo trascinerebbe Washington in un nuovo conflitto in medio oriente, ma darebbe anche l’opportunità di eliminare il programma nucleare di un rivale. In una serie di post sui social media pubblicati nel corso della giornata, il presidente americano ha affermato che gli Stati Uniti hanno "il controllo completo e totale dei cieli sopra l'Iran". Ha poi avvertito la guida suprema iraniana Ali Khameini di essere un "bersaglio facile" e ha chiesto la "resa incondizionata" senza specificare cosa ciò avrebbe comportato. A fine giornata, dopo un incontro di 80 minuti con i principali collaboratori nella Situation Room, ha parlato con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Le dure parole di Trump sono arrivate in un momento di estrema debolezza per Teheran, il cui potere è ai minimi storici dopo un anno di attacchi israeliani contro i suoi alleati e delegati in medio oriente. Trump ha da tempo adottato un approccio aggressivo nei confronti dell'Iran, sebbene abbia anche condotto una campagna per porre fine ai conflitti globali e – fino alla scorsa settimana – abbia continuato a cercare un nuovo accordo per limitare il suo programma nucleare. La posizione attuale di Trump potrebbe avere conseguenze imprevedibili. Se riuscisse a ottenere concessioni dai leader iraniani per smantellare il loro programma nucleare, o a distruggerlo militarmente senza provocare gravi ritorsioni, verrebbe celebrato come un presidente capace di ottenere risultati con un approccio imprevedibile alla politica estera. Ma una gestione errata della crisi potrebbe trascinare Washington in un conflitto su larga scala, con rischi gravi e imprevedibili per i cittadini americani. E se gli attacchi fallissero, esiste il pericolo che l’Iran scelga di sviluppare l’arma nucleare che finora ha sempre dichiarato di non voler costruire. "Ora abbiamo il controllo completo e totale dei cieli sopra l'Iran. L'Iran aveva ottimi sistemi di tracciamento del cielo e altre attrezzature difensive, e in abbondanza, ma non sono paragonabili a 'roba' prodotta, concepita e prodotta in America", ha dichiarato Trump martedì, prima di incontrare i suoi consiglieri nella Situation Room. "Nessuno lo fa meglio dei buoni vecchi Stati Uniti". I leader che hanno incontrato Trump al vertice del G7 — tenutosi lunedì in Canada e composto da democrazie alleate — hanno riferito che il presidente americano aveva preso in considerazione l’ipotesi di partecipare agli attacchi israeliani contro l’Iran. Una svolta inattesa, dopo mesi in cui aveva continuato a puntare su una soluzione diplomatica per fermare il programma nucleare iraniano, nonostante le pressioni di Netanyahu. Il Segretario di Stato Marco Rubio, che ha accompagnato Trump in Canada, ha contattato lunedì i suoi omologhi per discutere della situazione, assicurando però ad alcuni di loro che Washington non intendeva unirsi agli attacchi israeliani, secondo quanto riferito da tre funzionari anonimi. La posizione degli Stati Uniti è cambiata nelle ultime ore: Trump sta ora valutando la possibilità di partecipare all’attacco. Il senatore Lindsey Graham (R-South Carolina), da sempre uno dei falchi repubblicani più aggressivi nei confronti dell’Iran, ha raccontato di aver parlato con il presidente lunedì sera, sostenendo che Trump voglia aiutare Israele a "portare a termine il lavoro" e distruggere il programma nucleare iraniano, incluso l'impianto chiave di Fordow, situato a sud di Teheran. "Mi è sembrato molto tranquillo, determinato", ha detto Graham. "Non credo che Israele sia in grado di neutralizzare Fordow senza il nostro aiuto, ed è anche nel nostro interesse assicurarci che quel programma venga annientato, tanto quanto lo è per Israele. Se possiamo fare qualcosa per aiutare Israele, dobbiamo farlo". Trump è rientrato anticipatamente dal Canada a Washington, spiegando di voler monitorare personalmente la situazione in Medio Oriente. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz, che ha incontrato Trump al vertice in Canada, ha espresso martedì il proprio sostegno all’offensiva israeliana, definendola “il lavoro sporco… che Israele sta facendo per tutti noi”. "Anche noi siamo nel mirino di questo regime", ha dichiarato Merz alla rete tedesca Zdf a margine del vertice. "Il regime dei mullah ha seminato morte e distruzione in tutto il mondo". Negli ultimi giorni, Israele ha colpito diversi impianti nucleari iraniani, ma l’obiettivo più strategico rimane Fordow, un sito di arricchimento dell’uranio scavato in profondità sotto una montagna. Secondo fonti statunitensi, solo armi estremamente potenti, come la GBU-57 — una bomba “bunker buster” da 15 tonnellate nota come “Massive Ordnance Penetrator” (MOP) — sarebbero in grado di colpirlo efficacemente. L’ordigno, lungo sei metri, viene trasportato dai bombardieri stealth B-2 Spirit, basati a Whiteman (Missouri), capaci di raggiungere bersagli globali grazie al rifornimento in volo. Il Pentagono, però, potrebbe anche ricorrere ad altri velivoli, tra cui i caccia già schierati nella regione e alcuni B-52 recentemente trasferiti a Diego Garcia, base congiunta USA-Regno Unito nell’Oceano Indiano. Il fatto che Trump abbia rivendicato il controllo dei cieli iraniani lascia intendere che le difese aeree iraniane siano state pesantemente danneggiate dagli attacchi israeliani nei giorni scorsi. Sebbene Washington abbia rafforzato la propria presenza militare nella regione sin dall’inizio dell’offensiva israeliana, gli Stati Uniti hanno finora insistito sul fatto che il loro ruolo resti esclusivamente difensivo. Trump, tuttavia, ha contraddetto questa linea, invitando gli iraniani a evacuare Teheran, una metropoli di circa 10 milioni di abitanti. Fino a martedì pomeriggio, secondo funzionari della difesa, le forze statunitensi non avevano ancora compiuto attacchi diretti contro l’Iran, ma avevano fornito supporto a Israele con cacciatorpediniere schierati al largo e jet militari incaricati di intercettare i missili iraniani lanciati contro lo Stato ebraico. Il generale Michael "Erik" Kurilla, comandante delle forze statunitensi in medio oriente, che da tempo promuove un approccio aggressivo verso Teheran, ha riferito la scorsa settimana alla Commissione per i servizi armati della Camera di aver presentato a Trump e al segretario alla Difesa Pete Hegseth “un ampio ventaglio di opzioni” militari. Secondo Kurilla, gli Stati Uniti si trovano ora “in una finestra strategica di opportunità” per tutelare i propri interessi nella regione, prevenendo, fra l’altro, la capacità iraniana di acquisire armi nucleari. Secondo la maggior parte degli esperti, Teheran potrebbe arricchire abbastanza uranio per una bomba nel giro di una settimana, ma impiegherebbe mesi — forse fino a un anno — per trasformare tale materiale in un ordigno utilizzabile. Se da un lato il cancelliere Merz ha apertamente appoggiato l’offensiva israeliana, altri leader riuniti in Canada hanno adottato toni più cauti o critici. Il presidente francese Emmanuel Macron ha ribadito martedì ai giornalisti la necessità di un cessate il fuoco e di negoziati. "I popoli cambiano da soli i propri leader. Tutti coloro che hanno cercato di rovesciare regimi con attacchi militari hanno commesso gravi errori strategici", ha osservato. La leader europea Kaja Kallas ha riferito che i ministri degli Esteri dell’Unione Europea, riuniti martedì in un incontro d’emergenza virtuale, sono compatti nel chiedere una de-escalation. "Il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti rischia di allargare il conflitto in tutta la regione, e questo non è nell’interesse di nessuno", ha dichiarato Kallas. Rubio, in un colloquio telefonico di lunedì sera, ha ribadito lo stesso concetto ai suoi omologhi europei. Anche il ministro degli Esteri egiziano Badr Abdelatty ha sollecitato negoziati e moderazione, così come il portavoce del ministero degli Esteri del Qatar, Majed al-Ansari, che ha sottolineato gli sforzi regionali per "evitare le conseguenze disastrose di questa escalation pericolosa scatenata dall’aggressione israeliana contro la Repubblica Islamica dell’Iran". Israele ha continuato i raid martedì, impiegando circa 60 jet per colpire 12 siti di lancio e stoccaggio di missili, soprattutto nell’Iran occidentale, secondo quanto riferito dal portavoce militare israeliano Effie Derfin. Nella stessa giornata, l’esercito israeliano ha annunciato di aver ucciso Ali Shadmani, descritto come capo di stato maggiore delle forze iraniane in tempo di guerra. Tuttavia, non sono state fornite prove, né l’Iran ha confermato la sua morte. Solo pochi giorni prima, Shadmani era stato nominato a quel ruolo dopo la morte del suo predecessore, Gholam Ali Rashid, colpito dagli attacchi israeliani di venerdì. Intanto, media iraniani hanno riferito di esplosioni e intensi fuochi di contraerea a Teheran e nella città nordoccidentale di Tabriz. Molti civili hanno iniziato a fuggire dalla capitale nella notte tra lunedì e martedì. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), anche il sito sotterraneo di arricchimento di Natanz avrebbe subito “danni diretti” a seguito dei bombardamenti israeliani, come rilevato da immagini satellitari ad alta risoluzione: è la prima valutazione ufficiale secondo cui le centrifughe sotterranee potrebbero essere state colpite. Gli attacchi aerei di rappresaglia iraniani contro Israele sono proseguiti per il quinto giorno consecutivo, attivando le difese israeliane praticamente ogni ora. Secondo il governo di Tel Aviv, i raid iraniani hanno provocato finora 24 morti e oltre 600 feriti in Israele. Le autorità iraniane hanno invece riferito di 224 vittime complessive dall’inizio degli attacchi israeliani, senza distinguere tra civili e militari. Michael Birnbaum, Dan Lamothe, Claire Parker, Karen DeYoung copyright Washington Post
"L'obiettivo è arrivare a negoziati che consentano all'Iran di non diventare una potenza nucleare". Lo ha detto la premier Giorgia Meloni, in un punto stampa a margine del G7 in Canada. "Si va verso l'escalation ma uno scenario diverso è ancora possibile". L'appoggio che il regime iraniano fornisce a organizzazioni terroristiche "mina costantemente la stabilità e la sicurezza dei nostri alleati, in particolare quella di Israele" ha detto Meloni. Sulle trattative riguardo al programma nucleare iraniano, la premier ha ricordato che finora i negoziati non hanno prodotto risultati a causa della chiusura di Teheran: "Le trattative condotte finora dagli Stati Uniti per arrivare a un accordo sulla fine del programma nucleare iraniano non hanno ottenuto risultati a causa della mancanza di disponibilità da parte di Teheran". La premier non ha escluso che il conflitto in corso possa portare a un cambiamento interno al regime di Teheran: "Lo scenario migliore sarebbe quello di un popolo oppresso che riesce a rovesciare il regime", ha detto. Smentita invece con decisione qualsiasi apertura ad affidare a Mosca un ruolo di mediazione, come proposto dal presidente americano Donald Trump. "Francamente, affidare a una nazione in guerra la mediazione su un'altra guerra non mi sembrerebbe proprio l'opzione migliore da prendere in considerazione. Ma non è un'opzione sul campo, anche dalle parole che ho ascoltato personalmente. Dopodiché – ha aggiunto – visti i rapporti che Putin ha con gli ayatollah, se vuole convincerli a dismettere il programma nucleare, a meno che non lo sostenga, noi siamo ovviamente disponibili da questo punto di vista". Ha poi ribadito le responsabilità di Mosca sul mancato raggiungimento di un accordo con l'Ucraina: "Ogni volta che si cerca di fare qualche passo in avanti, la Russia provoca con attacchi sulla popolazione civile", ha detto. Il tema, sul tavolo del vertice con i sette paesi, non è stato alla fine oggetto di una dichiarazione congiunta con gli Stati Uniti. Ma Meloni ha smentito l'ipotesi che Trump si sia tirato indietro: "La dichiarazione non era prevista" Nel corso del summit si è parlato anche di un cessate il fuoco per Gaza. "Credo che questo sia il momento giusto per ottenere una tregua" ha detto Meloni, ribadendo il sostegno italiano al piano arabo per la ricostruzione della Striscia. "Si dovrebbe partire da lì nel caso di un cessate il fuoco". Meloni ha poi espresso soddisfazione per il riconoscimento al ruolo italiano sul tema dell’immigrazione irregolare. "Oggi la ricetta italiana viene presa a paradigma dalle altre nazioni con cui ci stiamo confrontando. I leader hanno riconosciuto la leadership italiana nella gestione dell’immigrazione illegale" ha detto. Sul tema dei dazi e delle trattative commerciali in corso tra Stati Uniti e Unione europea, dice la premier che si sta andando verso la giusta direzione: "Guardando la costanza e la franchezza del dialogo, e il rapporto che abbiamo oggi, direi che lo scenario è parecchio cambiato: bisogna continuare a lavorare e alla fine una soluzione si troverà", ha concluso.
L'intelligenza artificiale non teme nessuna domanda e oggi risponde pure all'appello in classe. Iniziano gli esami di maturità e in aula con studenti e insegnanti ci sarà anche l'AI, che si fa spazio tra i banchi attraverso compiti fatti in pochi secondi, ripassi notturni e scorciatoie. Gli studenti la usano sempre di più, spesso senza guida. Gli insegnanti, invece, sembrano ancora spiazzati di fronte a una tecnologia che, se non viene compresa, rischia di essere solo temuta o vietata. “In Italia manca una cultura dell’intelligenza artificiale”, dice al Foglio il professor Pier Cesare Rivoltella, docente di Didattica e Tecnologie dell’educazione all’Università di Bologna. “L’AI è ancora pensata in termini strumentali – come opportunità di business o come strumento di cui ci si può servire tendenzialmente in maniera fraudolenta”. Proprio questo uso “fraudolento” e inconsapevole dell’AI è sempre più diffuso tra gli studenti. Infatti, secondo un’indagine condotta da Skuola.net su un campione di mille studenti all’ultimo anno di liceo, più di un maturando su tre ha escogitato una possibile strategia per usare l'assistente virtuale durante l'esame: il 23 per cento è praticamente sicuro di riuscirci, mentre il 12 per cento lo considera come l’ultima spiaggia, qualora si trovasse con le spalle al muro. Inoltre, il 35 per cento ha utilizzato frequentemente l’intelligenza artificiale da settembre a oggi, mentre un ulteriore 34 per cento lo ha fatto saltuariamente e un 19 per cento solo in casi sporadici. Non si tratta più quindi di episodi isolati: questa oggi è la nuova normalità scolastica, tanto che l'intelligenza artificiale potrebbe essere vista come una sorta di manuale alternativo dello studente. Eppure, anziché cercare di integrarla in un percorso formativo, la scuola reagisce con il divieto. “Abbiamo rinunciato a educare e troviamo più comodo vietare. È la stessa logica che c’è dietro al divieto dei cellulari”, dice il professor Rivoltella. Proprio due giorni fa è arrivata la circolare da parte del ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara con cui ha annunciato ai dirigenti scolastici che tutti gli istituti dovranno vietare l'uso del cellulare in classe anche alle scuole superiori. Tutto ciò dopo aver imposto poco tempo fa il divieto anche per le scuole elementari e medie. Normalizzare l'uso degli strumenti digitali sarebbe l'unico modo per eludere il problema di un uso illecito. “Creare una cultura dell’AI vorrebbe dire normalizzarla e in questo caso non ci sarebbe più nessun motivo per preoccuparsi degli studenti che la utilizzano per copiare. La userebbero come strumento – così come utilizzano i libri – e non come scorciatoia”, spiega il professore dell'Università di Bologna. In parte, questo utilizzo come "strumento didattico" già esiste: il 47 per cento degli studenti prevede di usare l’AI per ripassare in vista dell’orale, usandola come un supporto didattico al pari di appunti o manuali. Ma perché questo diventi la regola, e non l’eccezione, secondo il docente di Didattica servirebbe ripensare radicalmente il sistema degli esami di stato: “Ci sarebbe bisogno di rielaborare tutto il modo in cui si fa un esame di stato, che è un retaggio ancora della scuola gentiliana", sostiene Rivoltella, che aggiunge: "È uno strumento che appartiene alla pedagogia di una scuola selettiva che pensa all’ambiente scolastico come spazio per costruire i quadri dirigenti dello stato in futuro. È il modello gentiliano, modello fascista in fondo”. Un modello difficile da scardinare, che richiederebbe un cambio di prospettiva totale. “È difficile che le cose cambino per decisioni che arrivano dall’alto. L’unica cosa da fare sarebbe che i dirigenti e gli insegnanti di questo paese prendessero sul serio la legge sull’autonomia scolastica perché solo sperimentazioni dal basso potrebbero aprire spazi di cambiamento concreti”, dice il professore. Per rendere queste sperimentazioni efficaci, nota Rivoltella, ci sarebbe bisogno anche di una diversa formazione dei docenti. “C’è un grosso problema di formazione iniziale degli insegnanti, che a oggi è risolta con i famosi 60 Cfu. E il numero di ore dedicate alle tecnologie innovative sono cinque: con queste gli insegnanti dovrebbero essere formati e acquisire le competenze digitali?”, si chiede provocatoriamente il professore. La percezione degli studenti riflette questa impreparazione: solo il 32 per cento teme seriamente di essere scoperto se utilizza l’AI per fare un compito, perché molti ritengono che i docenti non siano in grado di riconoscerne l’impronta. E in effetti, il 48 per cento degli studenti ammette di aver usato l’intelligenza artificiale almeno una volta per superare un compito in classe, e uno su cinque lo fa abitualmente, spesso senza essere scoperto.
Roma. Ieri mattina, in Vaticano, Papa Leone ha incontrato i vescovi della Conferenza episcopale italiana (emeriti compresi). “La Comunità cristiana di questo paese – ha detto il Pontefice ... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
La doverosa premessa di questo articolo è che nessuna menzogna rende un buon servizio a una causa giusta. Nel drammatico teatro mediorientale, identificare la “causa giusta” è difficile (forse impo... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Agghiacciante e osceno, e perciò tremendamente umano, ecco come definire il territorio della scrittura di Dimitris Lyacos. Tradotto in Italia con la sua trilogia poetica Poena Damni lo scrittore greco torna grazie al Saggiatore con un viaggio letterario nei recessi più oscuri dell’animo umano, offrendo una riflessione narrativa sulla violenza e sugli abissi che essa spalanca. Finché la vittima non sarà nostra si pone come sorta di “libro zero”, di prequel, della trilogia poetica. E se prima era la poesia a essere venata di tratti romanzeschi, epici e narrativi, in questo nuovo testo il romanzo fa da colonna portante a visioni oniriche e squarci verticali. Il testo è infatti diviso in 24 capitoli, uno per ogni lettera dell’alfabeto, preceduti da un prologo. Ognuno di questi brani è costruito come una sequenza di montaggio cinematografico al centro del quale campeggia una diversa sfaccettatura della violenza. Dall’omicidio primordiale evocato nel prologo, ispirato a dinamiche predatorie di tipo animale, si passa all’uccisione metaforica di Abele da parte di Caino, fino a episodi che trattano la guerra, l’esilio, la tortura, la macellazione, la prigionia e la schiavitù. Lyacos utilizza una pluralità di voci narrative per restituire la molteplicità delle esperienze e degli sguardi, spingendo il lettore a interrogarsi continuamente sul confine – spesso labile – tra vittima e carnefice. Proprio questa rappresentazione della crudeltà esistenziale come dato insieme necessario, ma allo stesso tempo contraddittorio, è forse l’aspetto più potente e disturbante dell’opera. Non ignaro dei richiami all’epica classica greca, che concepiva l’esistenza come un continuo scambio di ire e sofferenze, di brutalità subìte e perpetrate, Lyacos racconta di un mondo di soprusi in cui la furia si manifesta come forza mutevole. Essa si espande e si trasforma, passando dal dominio sul corpo a quello sulla mente, fino a diventare una sorta di rimedio dal dolore stesso, rivelandosi così ancora più insidiosa. Dietro a questo ritratto l’autore sembra suggerire che la violenza sia una sorta di ancestrale misura dell’esistenza con cui la nostra società – apparentemente progredita – non smette in verità di fare i conti. La scrittura di Lyacos è densa, evocativa e frammentaria, alterna monologhi lisergici a dialoghi taglienti, restituendo la complessità di un mondo in cui la sofferenza è insieme origine e destino. Un’opera versatile e profonda capace di parlare al nostro presente con una forza rara. Finché la vittima non sarà nostra Dimitris Lyacos il Saggiatore, 272 pp., 19 euro
Ci sono molti modi per leggere (o rileggere) questo libro di Edmondo Berselli, meritoriamente ristampato a quasi vent’anni dalla sua prima edizione. Può essere letto come una cronaca maliziosa della cultura contemporanea italiana, oppure come un mirabile esempio di satira del conformismo nostrano, oppure ancora come l’avventuroso percorso di disintossicazione di un intellettuale dai tanti falsi miti circolati dagli anni Ottanta a oggi, soprattutto nel mondo di sinistra. Ma forse, in fin dei conti, la soluzione migliore potrebbe essere quella di infischiarsene di catalogare quest’opera e semplicemente goderne la lettura, lasciandosi sorprendere dal coraggio e dall’acutezza con cui Berselli riesce a stroncare alcuni dei totem del nostro panorama letterario, cinematografico, teatrale, con un garbo e un’ironia oggi sempre più rari. Il punto di partenza metodologico sono le tre categorie inventate qualche decennio fa da Alberto Arbasino: la “giovane promessa” destinata a restare tale (un po’ come gli studenti di Cechov), il “solito stronzo” e il “venerato maestro”, sempre più raro e misterioso. Utilizzando queste tre “categorie” Berselli ripercorre il periodo che va dalla fine degli anni Settanta ai primi anni zero con brevi ritratti di un personaggio o di un milieu, evocando aneddoti (imperdibile quello di Bacchelli che spiega alle figlie di Croce come mangiare le ostriche), citando battute fulminanti. Tutto comincia con una confessione: “Nei momenti di malumore, sempre più frequenti, io confesso che non mi piace nulla. Non mi piace un romanzo, non mi piace un film, la musica, la televisione, non mi piace praticamente niente di quanto viene prodotto in Italia. Non mi piacciono gli indiscutibili. Non mi piace ’o presepio. Non mi piace Roberto Benigni. Non mi piace Susanna Tamaro”. Sotto l’implacabile lente d’ingrandimento berselliana sfilano Benigni e Nanni Moretti, l’Enciclopedia Einaudi e i bestseller mittleuropei dell’editore Adelphi, Magris e Cacciari, fino a Battiato, l’autore di inafferrabili quanto suggestive melodie che hanno segnato gli ultimi decenni. Oltre alle opere, a essere destrutturati sono anche luoghi, tic e situazioni con cui tutti abbiamo avuto a che fare, in un modo o nell’altro: le presentazioni con annessi buffet con “bocconcini destrutturati come nella ultracucina dei nouveau chefs”, le fantasmagoriche riunioni di redazione della casa editrice Einaudi, sulle quali generazioni di lettori e studenti hanno fantasticato, dovendosi poi accontentare dei verbali. Un libro tanto lucido da rendere inutile congetturare su cosa avrebbe scritto Berselli del contesto attuale: è esattamente lo stesso descritto a suo tempo. Venerati maestri Edmondo Berselli, Quodlibet, 288 pp., 16 euro
Direi che mirare all’assassinio di un capo di stato nemico, e rivendicarlo pubblicamente, come ha fatto Netanyahu con l’ayatollah Ali Khamenei, Guida Suprema della Repubblica Islamica d’Iran, sia un altro sviluppo originale delle abitudini contemporanee. Finora non si faceva, se non m’inganno, forse per una ragione di convenienza, o perché sembrava maleducato. E arrischiato, anche: se minaccio di uccidere il capo dei nemici, autorizzo i nemici a cercare di uccidermi. Infatti, un missile israeliano ha colpito nei paraggi della residenza ufficiale di Khamenei, e uno iraniano in quelli della dimora di Netanyahu, che si è riparato nel rifugio. In realtà il programma di bombardamenti israeliani non sembra aver avuto di mira Khamenei, dal momento che ha dimostrato di essere in grado di far fuori qualunque singolo personaggio. A meno che l’appetito sia venuto mangiando, e a quattro palmenti. Khamenei non è una figura grandiosa, crimini a parte, del firmamento sciita: piuttosto il titolare di un apparato capace di una abominevole tenuta. Arrivato alla successione di Khomeyni nel 1989, un anno dopo la fine della spaventosa guerra con l’Iraq sunnita di Saddam – otto anni, un milione o due di morti – era stato presidente dal 1981: un potere che dura da 44 anni. Di anni ne ha 86, e un notorio tumore. Della sua successione si parla e si tratta da tempo: il designato, Ebraim Raisi, “l’ayatollah del massacro”, migliaia di assassinati di sua mano nel 1988, nel maggio del 2024 finì i suoi giorni, con illustri colleghi, in un incidente di elicottero. Direi dunque che la frase impudente – possiamo uccidere Khamenei, faremmo finire la guerra – sia soprattutto una riprova dell’euforia oltranzista di Netanyahu, che è anche lui al potere, con poche pause, da una vita, ha anche lui il suo problema di prostata, ed era fra i pochissimi leader israeliani a non aver mai guidato una guerra. Possiamo fare quello che vogliamo – come ha detto a proposito del controllo indisturbato del cielo sopra Teheran. A prestargli un proposito ragionato, potrebbe averla sparata così grossa al fine di indurre Khamenei a scappare davvero a Mosca, che significherebbe una terribile e vergognosa demoralizzazione per il regime iraniano. Difficile credere che succeda: quella della fuga a Mosca sarebbe una via senza ritorno, e potrà valere per i notabili corrotti e le loro famiglie. Khamenei tiene famiglia numerosa, pensa a una successione dinastica al figlio Mojtaba, sarà corrotto corrottissimo, ma sottrarsi personalmente alla promessa del martirio – shahed, come i droni – sarebbe troppo. Sottrarsene standosene quatto sotto terra è altra cosa, e ha una gloriosa tradizione nello sciismo duodecimano. Resta il caso grottesco di una minaccia mortale rivolta a un vecchio di 86 anni, e suona piuttosto come un’abbreviazione della fine, che lo consegni alla devozione fanatica dei suoi. Il piacere di morire vecchio e caro agli dei. L’altroieri in Israele, nella città di Bnei Brak, circa 200 mila abitanti, a est di Tel Aviv, un missile balistico iraniano ha colpito un edificio di abitazioni e ha ucciso un uomo di 86 anni. Un coetaneo di Khamenei. Ho cercato su molti siti di informazione, non ho trovato il nome, né che cosa avesse fatto, che cosa facesse nella vita. Nelle pagine che danno la traduzione in italiano si legge che è morto per uno sciopero iraniano – strike. Diavolo di un traduttore.
L’estate 2025 si annuncia come un ulteriore banco di prova per la tenuta del Servizio sanitario nazionale (Ssn), stretto tra l... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Gli assenti hanno sempre torto. Lo fa capire il ministro della Difesa Guido Crosetto in questo colloquio, commentando
In un paese che invecchia inesorabilmente, è inevitabile immaginare politiche di adattamento: riforme della sanità, del welfare, delle pensioni. Ma in Italia manca una visione per riequilib... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Le operazioni israeliane dentro al territorio iraniano sono andate avanti per mesi, e la preparazione dell’attacco a sorpresa di venerdì scorso è stato meticoloso, avvenuto in gran parte sotto al n... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti
Quando ho letto del giovane di Graz che ha ucciso alunni e insegnanti nella sua ex scuola prima di suicidarsi, ho pensato a Thomas Bernhard e ho letto da cima a fondo la sua Autobiografia, uscita nel 1975 e da poco ripubblicata da Adelphi in volume unico (574 pp., € 16 euro). Vero è che Bernhard aveva frequentato un cupo e ostile collegio a Salisburgo, che dista tre ore dalla sede della strage; vero che mai avrebbe scritto alla mamma di prendersi cura del gatto, essendo impegnato con la propria per lo più in conversazioni in cui lei gli rinfacciava di averle rovinato la vita nascendo. Alcuni punti di contatto sono però evidenti: l’attentatore di Graz era stato reiteratamente bullizzato, come Bernhard racconta di avere subìto continue umiliazioni dai compagni per la sua enuresi o per la costituzione deboluccia, che gli impediva di spintonarli per arrivare ai lavandini e compiere abluzioni decenti; come l’attentatore di Graz (il cui pluriomicidio sembra architettato come raccapricciante coreografia della propria uccisione), Bernhard appare ossessionato dal suicidio, tanto da presentare in esergo uno stralcio del Salzburger Nachrichten che quasi si vanta del primato di auto-ammazzamenti detenuto dalla città. Se immagino l’interno del cervello del giovane assassino, me lo figuro come la foto di copertina scelta da Adelphi: uno scatto di Michael Horowitz che ritrae Bernhard come un bambino invecchiato, intento a girare a vuoto in bici dentro una stanza spoglia e asfittica. Nel primo dei cinque romanzi mono-capoverso che compongono l’opera (L’origine, La cantina, Il respiro, Il freddo e Un bambino, con l’ultimo volume che si chiude ricongiungendosi all’inizio del primo), Bernhard racconta con maniacale precisione la scena di sé che un bel giorno decide di non tornare a scuola e camminare in direzione opposta, spiegando per bene il portato metaforico della scelta, che non significa solo voltarsi e andare in un altro quartiere, bensì lasciarsi alle spalle ciò che si ha davanti come prospettiva obbligata. Il giovane di Graz aveva abbandonato la scuola, ma non aveva saputo incamminarsi in direzione opposta. La differenza fondamentale fra vita e letteratura, purtroppo, è questa.
Una panchina di legno, come in una canzone di Guccini, racconta l’incontro fra Giorgia Meloni e Donald Trump, prima che il presidente Usa lasci anzitempo il G7 canadese, “graffiando” il col... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti