Rassegna Stampa Quotidiani
Il Foglio.it
Cgil in piazza da sola: la prova di forza che rivela un isolamento crescente
19 minuti fa | Sab 13 Dic 2025 09:43

Doveva essere una prova di forza, e in parte lo è stata, ma alla luce dei fatti lo sciopero convocato venerdì dalla Cgil ha avuto l'effetto opposto rispetto a quello auspicato: ha mostrato l'isolamento di un sindacato e messo in luce le molte contraddizioni che vi sono oggi quando si cerca di protestare contro il governo giocando più sulla demagogia che sulla forza dei fatti. La Cgil, come sapete, è andata in piazza senza la Cisl, senza la Uil, e ha organizzato, come succede ormai praticamente ogni anno, uno sciopero generale per protestare contro una manovra che secondo l'ufficio parlamentare di bilancio dà, nel triennio, 55 miliardi a lavoratori e famiglie e toglie 13 miliardi a imprese e autonomi. Le ragioni per far sentire la propria voce, sui temi economici, ci sarebbero, ma su entrambi i temi cruciali per il futuro dell'Italia la Cgil fatica a trovare le parole giuste per dettare l'agenda. Sui salari, la Cgil è in imbarazzo. Per migliorare i salari occorrerebbe scommettere più sulla contrattazione decentrata e meno su quella centralizzata mettendo al centro una parolina magica, produttività, ma la Cgil sa che spostare la protesta sui salari sul piano della contrattazione decentrata toglierebbe potere al sindacato nazionale. Allo stesso tempo, la Cgil avrebbe buone ragioni per essere preoccupata per l'economia: la produzione industriale va male, la crescita è vicina allo zero. Ma per crescere di più l'Italia dovrebbe seguire una linea opposta a quella suggerita dalla Cgil: puntare sulla produttività, investire sulla flessibilità, scommettere sulla globalizzazione. Gli scioperi generali sono sempre una prova di forza dei sindacati. Ma un sindacato isolato è un sindacato che rischia di parlare sempre più ai propri iscritti e sempre meno al resto dei lavoratori. E un sindacato che si dimentica di mettere la crescita al centro della propria agenda è un sindacato che rischia di perdere molte occasioni per dettare una buona agenda al resto del paese.

Il rapimento di Arabella: un bel film on the road nell'Alabama d'Italia
35 minuti fa | Sab 13 Dic 2025 09:27

Una volta ho dato un passaggio con Blablacar a un ragazzo che sembrava Kid Rock, un redneck. Portava una camicia a quadri da boscaiolo, cappellino da baseball, barba lunga e scompigliata, e viaggiava con una scatola di cartone forata. Gli chiedo da dove viene. Sei il figlio illegittimo del marito di Lana del Rey? (Alleva alligatori). Mi risponde: “Vengo dall’Alabama d’Italia, il delta del Po. E sono cresciuto nel Veneto profondo”. Poi aggiunge: “Nella scatola c’è una tartaruga rara. La mia famiglia le alleva”. La scena mi è tornata in mente guardando Il rapimento di Arabella, il secondo film di Carolina Cavalli. La trama: Holly (Benedetta Porcaroli) incontra nel parcheggio di un fast food Arabella (Lucrezia Guglielmino), una bambina mollata dal padre scrittore permaloso (Chris Pine), troppo impegnato a “invidiare Jonathan Franzen” per potersi occupare della figlia settenne. Holly è stata appena licenziata dalla pista di pattinaggio dove lavorava, non ha casa né famiglia, è sola, ed è bloccata in un passato che non riesce a elaborare. Quando Arabella le offre dei soldi per portarla via, poiché vuole scappare dalla sua vita, Holly crede di vedere nella bambina sé stessa da piccola, arrivata da un buco nel tempo per permetterle di mettere a posto le cose. Quindi “rapisce” la piccola e insieme partono per un viaggio da fuggiasche, con polizia, padre permaloso e mondo alle calcagna. Attraversano paesaggi e personaggi surreali, in una serie di tableaux da film indie americano. La grana della pellicola, i colori saturati, la toponomastica che richiama località del New Mexico, la decappottabile che rubano, i motel che ricordano Un sogno chiamato Florida, i tipi eccentrici con mullet e camicie da cowboy alla Wes Anderson o Paris, Texas, la dolcezza stramboide alla Little miss sunshine, financo alcuni dialoghi non-sense alla Lynch, tutto è indie. Ma perché attingere da un immaginario che non è il nostro?     Durante una presentazione, Cavalli ha detto che cercava un’ambientazione con spazi aperti e luoghi liberi, quasi vuoti, puntellati da elementi isolati: una casa, un albero, una strada, come stilizzati, disegnati da un bambino. L’ha trovata a Bagnoli di Sopra, a sud di Padova, praticamente in quell’Alabama d’Italia del nostro allevatore di rettili padano. E, poiché ogni provincia è unica e tutte le province si assomigliano, ecco che l’immaginario americano (anche se un po’ alla moda) si dissolve e si confonde con la provincia italiana, piatta e sospesa, e con le sue maschere da commedia umana (bellissima Eva Robin) in un universo popolato anche da una capra sorda tenuta in lavanderia, o da un matrimonio di due anziani in una cappella in stile Las Vegas – anche se l’idea che l’assurdo equivalga automaticamente all’intelligentissimo non convince a pieno. In questo quadro narrativo, è proprio negli spazi liberi e meno connotati che Holly e Arabella emergono con più nitidezza. Il tropo del viaggio funziona come metafora lineare del viaggio di Holly nel suo passato, sostenuto robustamente dall’intensità vulnerabile di Benedetta Porcaroli e vivacizzato dall’impertinenza di Lucrezia Guglielmino. Viaggiano attraverso i paesi, i motel e le pieghe del tempo. Il trauma ha reso Holly scollata dalla realtà, parla un linguaggio nato dalla solitudine e dall’abbandono, comprensibile solo ad Arabella e al poliziotto Maccarino. E’ diffidente e insieme assoluta, sempre sul punto di spezzarsi e, anche grazie a lei, il film lascia appiccicato un groviglio di tenerezza e tristezza. Da ultimo il movimento on the road, il registro indie che funziona per sottrazione e dunque crea spazio anche per le sfumature più paradossali e da commedia, libera il film dal vizio ai sospiri drammatici, così italiani, direbbe Stanis La Rochelle.

Dai panettoni alle Olimpiadi, la grande abbuffata dei consumi promette crescita
42 minuti fa | Sab 13 Dic 2025 09:20

Battezzato il weekend di Sant’Ambrogio, i consumi si preparano a dettar legge sull’intera ”grande Milano”, grande distribuzione inclusa, in attesa dell’abbuffata supplementare delle Olimpiadi. Nell... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

Il segreto del Milan
48 minuti fa | Sab 13 Dic 2025 09:14

Quando il calcio si giocava più lentamente, c’era chi, ogni tanto, si concedeva il lusso di una pausa. Come il poetico calciatore (e poi scrittore) Ezio Vendrame, che si arrestava con il pallone so... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

Vincenzo Trione e gli artisti che hanno "rifatto il mondo"
50 minuti fa | Sab 13 Dic 2025 09:12

Ecco un libro da regalare a quei presuntuosi che davanti a un taglio di Fontana o a sacco di Kounellis commentano compiaciuti “lo sapevo fare anch’io”. Vincenzo Trione, uno dei più brillanti critici e curatori italiani, apre le porte del suo archivio per ritornare sui territori dell’avanguardia, che è per lui ossessione, materia di studio, esperienza privilegiata per conoscere l’anima e l’antropologia contemporanee. Dopo aver letto "Rifare il mondo" (Einaudi, 2025) non avremo più alibi per colorare l’ignoranza di saccenteria. E infatti, Trione si sofferma sui molti e dissonanti paesaggi dell’arte contemporanea per carpirne l’identità, le poetiche, le profezie e indagarne le aporie, le oscillazioni le contaminazioni. Ritorna sui propri passi, ripensa la sua formazione, e combinando allegramente l’esegesi e l’autobiografia tinge l’una e l’altra di ironia. Così questo bel saggio, che deve la sua forza propulsiva al compianto Ernesto Franco ed è insieme un percorso iniziatico, una scorribanda su opere celeberrime e una raccolta di citazioni, offre un inventario ragionato dell’avanguardia. Non solo nel senso dei movimenti nati all’inizio del XX secolo, futurismo, dada, surrealismo, all’insegna dell’urto, della violenza, dello scandalo per affermare il cambiamento. Ma soprattutto rispetto a un concetto cruciale per l’arte contemporanea che, nutrendosi di utopia e antagonismo, rifiutando il passato per rincorrere il nuovo, il dissonante, l’inaudito continua a dominare il nostro presente ormai privo di trascendenza, sgravato di ogni gerarchia al punto da confondere la grandezza delle opere dello spirito coi prodotti dell’intrattenimento. E infatti il gesto di ribellione oggi imperversa in sfilate, concerti rock, graffiti, videoclip, videogame e nei tatuaggi con cui marchiamo la nostra carne viva. Destino paradossale dell’avanguardia che voleva rifare il mondo: compiuta l’opera di frantumazione e decostruzione tipica dei pionieri, la cultura di massa tende ad assimilare il tutto e impone ovunque gli stessi valori e gli stessi comportamenti, col risultato che il conformismo assorbe la ribellione, sino a depotenziarla. La cosa bella di questo libro scapigliato, aperto alla divagazione perpetua di un esploratore bulimico, è che spazia liberamente dai calligrammi di Apollinaire ai graffiti di Bansky, dagli esperimenti di Jean Cocteau ai film di David Cronenberg, dalla pittura metafisica di de Chirico alla sfilata cyborg di Alessandro Michele ex direttore creativo di Gucci, e dalla malinconia di Paul Valéry alle contorsioni di Francesco Vezzoli. Ma lo fa senza complessi, senza mai perdere di vista l’impianto teorico che fonda l’avanguardia e si alimenta di pensatori illustri, da Baudelaire a Walter Benjamin, da Hannah Arendt a Jorge Luis Borges, Wystan H. Auden a Milan Kundera esegeta del kitsch. “Non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, ‘moderna’ e non abbia creduto di essere immediatamente davanti a un abisso” scriveva Benjamin nel Passagenwerk. “La lucida e disperata coscienza di essere nel mezzo di una crisi è qualcosa di cronico nell’umanità. Ogni epoca percepisce sé stessa irrimediabilmente moderna. Il ‘moderno’ tuttavia è diverso nel senso in cui sono diverse le varie figure di uno stesso caleidoscopio”. E caleidoscopica è l’abilità di Trione di divagare su tante forme singolari e contrastanti, contigue e distanti, ma convergenti come quelle dell’avanguardia, lavorando sulle intenzioni e i rimandi, le assonanze e le sfide. Voleva immaginare i contorni di quella che per lui è solo una storia possibile? Ha finito per scrivere una storia tragica e più che reale.

Leggere Victor Hugo per capire che il fine della politica non è la felicità
1 ora fa | Sab 13 Dic 2025 08:30

Nella nota introduttiva ai Miserabili, nell’edizione Oscar Mondadori, viene riportata una frase di un celebre discorso sulla miseria tenuto da Victor Hugo all’Assemblea legislativa del 17 luglio 1849: “La sofferenza non può scomparire, la miseria deve scomparire. Vi saranno sempre degli infelici, ma può darsi che non vi siano più dei miserabili.“ In queste poche frasi vi è un’intera idea di mondo e di azione politica. Innanzitutto, ciò che specifica Hugo traccia con inequivocabile chiarezza una distinzione tra felicità e miseria. La prima attiene a quella che potrebbe essere considerata la struttura “qualitativa” dell’esistenza umana, la seconda a quella “quantitativa”. Senza dimenticare che una buona vita a livello quantitativo si può certo sviluppare in una migliore vita a livello qualitativo.          Detto questo, l’idea che coglie perfettamente Hugo nella sua icastica frase può essere anche esplicitata in un altro modo, ossia comprendendo che la povertà è la condizione naturale dell’uomo, mentre non lo è il benessere né tantomeno la ricchezza. Benessere e ricchezza sono possibili perché vengono prodotti. E le condizioni di possibilità di questa produzione sono sempre reversibili, non stanno in piedi per miracolo. L’unico modo per produrre ricchezza è quello capitalista, semplicemente non ve n’è un altro. E’ una realtà del mondo secondo quelle che sono le leggi del comportamento degli uomini e delle loro stesse caratteristiche esistenziali e relazionali. L’alleggerimento del peso della miseria, la necessità di mettere le persone in grado di vivere dignitosamente, l’aumento delle possibilità di vita, tutto ciò avviene grazie a un determinato modello di produzione: un orizzonte quantitativo che si tramuta poi in opportunità qualitative. Il miglioramento delle condizioni di vita deve essere abilitante per l’emancipazione del singolo, ossia per permettergli di autodeterminarsi nel modo che ritiene più opportuno, nel modo più libero. Ecco ciò che significa che “la miseria deve scomparire”, permettere a tutti di uscire dallo stato di minorità sociale ed economica in cui non è possibile alcun avanzamento di quei “bisogni superiori” di cui poi si compone una vita piena. Tutto ciò, però, si è già compiuto, o meglio, si sta compiendo con una rapidità e un successo che lo stesso Hugo non credo avrebbe mai potuto immaginare per i suoi miserabili, e ciò avviene grazie a uno specifico modello economico. Tuttavia, potrà sempre esserci una regressione, perché nessuno stato di cose è permanente, e questo è bene capirlo pienamente. La ricchezza e il benessere raggiunti sono figli di condizioni sempre mutabili in base a scelte di natura politica, che sono sempre legittime, ma che talvolta possono essere figlie di obnubilamenti della ragione. La cosa però forse più rilevante della frase di Hugo è la presenza di spirito nel sottolineare la differenza tra la questione economico-politica della miseria e la questione della ricerca della “felicità” o della possibilità di abolire la sofferenza. Sebbene la cosa appaia ovvia, così non è oggi nel momento in cui a quello che è un modello economico-politico di straordinario successo viene rivolta l’accusa di non essere stato in grado di eliminare la sofferenza o di avere superato definitivamente l’infelicità. In fin dei conti, è questo il cuore di quello che si definisce “discorso intersezionale”, e che non è una pura espressione accademica, bensì è il cuore delle argomentazioni della gran parte della sinistra contemporanea (e il motivo per cui questa non riesce a formulare una proposta politica che abbia appeal al di là dei vecchi aficionados, dei giovani idealisti e delle minoranze suscettibili). Per cercare di essere più chiari, il discorso intersezionale non è altro che quel discorso in cui tutto si tiene, in cui tutti gli sventurati della Terra sono assimilati ponendo al centro della propria argomentazione un unico imputato: l’uomo occidentale, spesso ma non più sempre bianco ormai, capitalista. Dalle vittime del cambiamento climatico alla violenza sulle donne, dai palestinesi ai diseredati del Sudamerica, dai malati di Aids africani alle donne e uomini che non si sentono né donne né uomini ma sono oppressi dall’orrore dell’identità sessuale, dalla foresta amazzonica e relative tribù agli animali negli allevamenti intensivi, etc. Tutto sta all’interno di un unico grande discorso in cui di miseria economica se ne vede poca (e quando vi è ci si lavora alacramente con programmi di aiuti internazionali strafinanziati dai paesi più ricchi del mondo) ma in cui il cuore del discorso è tutto incentrato su una sofferenza e su una infelicità che per un motivo o per l’altro non possono essere estirpate. Ciò che può essere imputato al capitalismo è che compiendo il suo miracolo economico ha illuso che tutto, ma proprio tutto, fosse possibile. Ossia che anche qualsiasi fonte di infelicità esistenziale o metafisica potesse essere superata attraverso il benessere economico. Che persino, per fare un esempio su tutti, chi si sente donna ma è nato uomo possa effettivamente diventare donna semplicemente dichiarandosi tale (e giù a cascata tutto il resto). Eppure, è ovvio, semplicemente che non è così. Al centro dell’esistenza umana vi è un desiderio invincibile, un’insoddisfazione impossibile da soddisfare. Dentro un essere limitato, l’uomo, vi è un desiderio infinito che se da un lato lo avvicina a ciò che chiamiamo Dio con questa sua prossimità all’infinito, dall’altra lo può rendere un demonio, perché talvolta si è disposti a tutto pur di provare ad avvicinarlo quell’infinito. La sofferenza e l’infelicità dell’uomo sono “metafisiche” perché stanno proprio in questo scarto tra finito e infinito. La frase di Hugo resta memorabile perché traccia i limiti dell’attività politica, e da quei limiti la ricerca della felicità e l’eliminazione della sofferenza stanno fuori. Qualsiasi pretesa diversa diviene facilmente, in un modo o nell’altro, più o meno violento, più o meno inclusivo, più o meno travestito di buone intenzioni, totalitaria.

Esseri umani ipersensibili, egoriferiti e prepotenti. Ecco il prodotto del nostro tempo
1 ora fa | Sab 13 Dic 2025 08:29

Fine del millenovecento, l’ultimo mondo. Non mi ricordo quasi più niente dell’èra prima dei social, ci hanno catapultati avanti di quattro o cinque generazioni, ci hanno cambiato i connotati, ci hanno detto “fate voi” e abbiamo fatto tutto male. Che siamo proprio un altro tipo di essere umano me ne accorgo almeno una volta al giorno, e a volte la doccia è più fredda di altre. La scorsa settimana chiunque di tutti quelli che (non) conosco sui social scriveva il suo parere su un provvedimento del tribunale dei minori de L’Aquila per una relazione degli assistenti sociali su una famiglia che viveva nel bosco. E prendevano posizione – netti, sicuri – diventando nervosi. Le persone con le loro opinioni non si divertono più, si surriscaldano. Io faccio anche peggio. Quattro giorni fa ero nervosa perché la mia assistente artificiale, l’Intelligenza al servizio d’esternalizzazione email, ha pensato più di due minuti per restituirmi il lavoro che le avevo chiesto. Due minuti non posso più aspettarli? E allora certi scemi che non telefonavano? Li ho aspettati per mesi interi – chi era quella, allora? Sempre io? E dov’è finita tutta la pazienza? Il peggiore individuo possibile fino a poco tempo fa era un superficiale, un megalomane aggressivo. Anni di cialtroni qualunquisti, di inadeguatezza morbida. Al massimo dell’espressione diventavi un personaggio di Vanzina, di Muccino, una caricatura. La miseria umana non aveva ancora scoperto le notifiche. Poi arrivò il narcisista, e tutti cominciammo a prenderci sul serio. Così dicono gli antropologi. “L’attrazione semantica inizia alla fine degli anni Settanta, quando il sociologo americano Christopher Lasch (due anni dopo che il giornalista Tom Wolfe aveva infilzato quell’epoca nella formula The Me Decade, il decennio dell’Io) dà alle stampe un best-seller che si intitola "La cultura del narcisismo". Al tempo non c’erano i selfie, ma Lasch inizia a intuire che ‘la gente risponde agli altri come se le proprie azioni fossero registrate e trasmesse simultaneamente a un pubblico invisibile oppure riposte per essere minuziosamente esaminate in seguito’. Il tema del ‘pubblico invisibile’ compare in uno dei più sofisticati sistemi diagnostici oggi in uso, la Shedler-Westen Assessment Procedure (SWAP), che fornisce al clinico un elenco di criteri che lo guidano nell’inquadramento della personalità del paziente. Uno di questi criteri, rilevante per la descrizione dello stile narcisistico, dice: “Tende a trattare gli altri come un pubblico che deve testimoniare la sua importanza, il suo ingegno, la sua bellezza”. (Vittorio Lingiardi, "Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo", Einaudi 2021). Poteva peggiorare, questo individuo già parecchio bacato? Pare di sì. Nell’anno del signore duemilaventicinque non siamo solo centrati sull’io, ma pure prepotenti e di fretta. La diagnosi accurata è che all’Io gigantesco di Lasch si è sostituito un io ancora più stronzo perché minuscolo e frantumato, che non tollera né l’attesa né l’incertezza. Per non parlare del contrasto. Diversity in azienda sì, ma con la diversity dell’opinione devi morire. Manie di importanza e vertebre di gelatina. Il capitalismo emotivo ci ha resi insieme ipersensibili e deregolati, convinti che pure i sentimenti debbano funzionare come servizi. La felicità non è più una cosa fragile fatta di mezze ore casuali e benedette, è una procedura. Devo-essere-felice. Gli psicologi mi raccontano tutti la stessa cosa: che il cliente si siede e ha una sola domanda: “Allora, dottore, quando mi fai sentire meglio?”. Le frustrazioni non sono la principale collezione della vita di tutti, sono un’anomalia di sistema. Puoi pagare e annullare, refresh di programma e hai fatto. Il risultato è una società di bipolarismi difficili perfino da credere, perché sulla carta sarebbero implausibili: siamo persone delicate e imperiose. Vulnerabili e permalose e però durissime con gli altri. Il dubbio ci uccide invece di sollevarci. Anche il silenzio ora te lo rivendono come aggressione passiva. Che fai, mi ghosti? Mostro! E dall’altra parte c’è solo un poverocristo che sta cercando il modo meno bruto per dirti: non mi garbi, lascia perdere. La gente dice di volere le verità dritte in faccia, poi però si rivelano paccheri e ci rimane male. E’ il trionfo dell’esoso moderato: l’Übermensch è morto pure come aspirazione e al suo posto ci siamo noi, mediocri con manie di accelerazione che però non sanno la strada. Qua la domanda non è più “chi vogliamo essere”, ma “quanta manutenzione servirà per continuare a stare come stiamo”.

Così l'Ambrosiana sta diventando un museo totale per Milano
1 ora fa | Sab 13 Dic 2025 08:14

Scena ormai ricorrente davanti all’Ambrosiana di Milano: gruppi di turisti da Est o dal Far East, radunati in religioso silenzio davanti alla guida, ascoltano la storia della Pinac... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

Così il nobile francese Savary spiegava nel Seicento l’Europa agli europei
1 ora fa | Sab 13 Dic 2025 08:08

Recensire un libro di trecentocinquant’anni fa? Ci ha pensato Carlo M. Cipolla, di cui il Mulino ripubblica "Tre storie extravaganti", una saporita escursione storica che, in cento pagine e tre capitoli, parla di banche, Europa e Turchia tra il XIV e il XVIII secolo. E – perla nell’ostrica – dedica l’ultimo terzo a raccontarci appunto “Le parfait négociant”, una voluminosa guida al commercio e alla finanza scritta da Jacques Savary. Pubblicata nel 1675 dopo vicissitudini e ribaltoni che farebbero romanzo a sé, pullulava di osservazioni antropologiche in anticipo sui tempi e di attenzione al “fattore umano”, sapendone leggere la centralità nello sviluppo economico. Non freddi numeri, insomma. E non solo istruzioni per l’uso del commercio, dei formulari e delle pratiche. Ma la prima guida di un genere, che, fondandolo, già lo trascendeva, trasformandosi in un reportage sullo stato del commercio continentale arricchito da franchissimi giudizi sui popoli e le loro attitudini. Un lavoro di classificazione immane, che spiegava l’Europa agli europei. Ma andiamo con ordine. L’autore, Carlo M. Cipolla: sì, proprio lui, quello di Allegro ma non troppo, librino che conteneva il leggendario “Le leggi fondamentali della stupidità umana”. Scritto in inglese nel 1976 e pensato per gli amici, vendette 350 mila copie solo in Italia. Farebbe bene rileggerlo, sta per compiere cinquant’anni e non li dimostra affatto. E sembra il ritratto di una certa classe politica italiana. Quanto a questo seminuovo Tre storie extravaganti – la prima edizione è datata 1994 – anche qui il tono di Cipolla è quello che gli conosciamo, con la punta intinta nella grazia narrativa. Era uno che scriveva “col sorriso dell’intelligenza”, come avrebbe detto Maupassant, pertanto non sorprende come riesca a rendere appassionanti le vicissitudini di un manuale per commercianti. Che però diventò il primo consapevole autoritratto europeo. Il suo autore, Jacques Savary, era un nobile francese cui Nicolas Fouquet affidò l’incarico di riscossore di entrate nelle terre della Corona. Seguirono arbitrati in alcune controversie commerciali e la revisione delle leggi che regolavano il commercio. Dopo la morte del primo ministro Colbert gli venne chiesto di condurre un’indagine sulla situazione finanziaria delle terre della Corona. Con intelligenza, Savary fece di necessità tomone: poco tempo libero e diciassette figli, la scrittura del manuale gli prese tutta la vita. Strano solo che a produrlo fosse la Francia, che non era una tigre del commercio, sul cui trono sedeva l’Olanda. “Tutto riesce agli olandesi”, scriveva infatti Savary “Laboriosi, abili, sensati e affidabili. Adatti alle manifatture”. Insieme agli inglesi, erano superiori commercialmente ai francesi, che non avevano una Marina adeguata. E se anche l’avessero avuta, “quel che un olandese fa con otto marinai, un francese lo da con dodici”. Poi – annota l’autore – gli olandesi in navigazione si accontentavano di merluzzo, formaggio e birra, invece i francesci pretendevano pane fresco, vino e acquavite. Gli spagnoli? “Trascurano l’agricoltura, le arti, le scienze, il commercio e la guerra. Per fortuna – aggiungeva – hanno buona salute, a differenza dei portoghesi. Il popolo vive in uno stato miserabile, ci sono provincie in cui gli abitanti non hanno mai visto l’effigie del loro re su una moneta”. La Polonia, allo zenith fino a metà del XVI secolo, stava tramontando. “Lavorazione del cuoio e delle pelli senza rivali”, annotava con nostalgia Savary. Grande effervescenza commerciale in Germania, Monaco di Baviera esclusa. Norimberga commerciava con le Indie e gli abitanti di Amburgo erano “laboriosi e diligenti. Le Poste non potrebbero funzionare meglio e la loro banca è la più ricca e meglio regolata d’Europa”. Anche la Svizzera era in ascesa: esportazioni di erbe medicinali, formaggi, cavalli. Di cioccolato neanche l’ombra, il cacao non era apprezzato. Infine, una pennellata sugli italiani. “Sono gentili e onesti”, ci carezzava Savary, “e i loro capitali non restano mai inattivi”. Ma – chiosava – usano termini ambigui nei contratti. Quindi, attenzione: “All’occorrenza possono interpretare tutto a loro vantaggio”.

Il Competence Center del Poli: il mondo che cambia. Parla Taisch 
1 ora fa | Sab 13 Dic 2025 08:08

Cinque anni fa partiva il “Competence Center” del Politecnico e tracciare... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

Poor, storia vera e per nulla consolatoria di una brava ragazza irlandese
1 ora fa | Sab 13 Dic 2025 08:06

Proprio mentre si discuteva della famiglia del bosco, tra chi diceva che i bambini stanno bene con i genitori sempre e comunque e chi avanzava dei dubbi, è stato pubblicato anche in Italia il libro "Poor" di Katriona O’Sullivan (People editore) che il Guardian definisce un bestseller internazionale e “uno dei migliori libri sulla complessità della povertà”. Il libro racconta la vita dell’autrice, irlandese nata da due genitori squattrinati e tossicodipendenti, che diventa mamma a 15 anni: Katriona O’Sullivan ha lasciato la scuola molto presto e si è ritrovata sola e senza una casa. Le possibilità che ce la facesse erano bassine. Invece oggi è un’apprezzata docente universitaria, ma l’aspetto interessante del libro è che non si tratta affatto di una storia di riscatto, di resilienza e di autodeterminazione. Poor non è il classico racconto motivazionale sul superamento della povertà. Non è la storia di Cenerentola, non c’è nessun principe che la salva e nessun consolatorio “questo dolore ti sarà utile”. Poor ritrae un mondo vero, senza inutili orpelli, senza retorica, un mondo che esiste anche quando chi può permetterselo distoglie lo sguardo. E’ un libro onesto e inquietante che inizia con il padre di Katriona in ospedale, malato di cancro, e con il medico che gli consiglia di smettere. Sa, dice il dottore, se smettesse di fumare potrebbe anche sconfiggerlo. Il padre, Tony, annuisce. E una volta usciti, tira fuori una sigaretta. La madre della protagonista è altrettanto spiazzante (uso un eufemismo, O’Sullivan è più esplicita). A sette anni Katriona O’Sullivan bambina confessa a sua madre, Tilly, che lo zio l’ha violentata, al che lei risponde senza scomporsi “sì... beh, ha violentato anche me”. Fine della conversazione. Eppure, se amarsi è difficile anche odiarsi non è facile. O’Sullivan dice di voler bene comunque a sua madre e di giustificarla perché “semplicemente non sapeva come amarmi”. Pur essendo spesso costellato di momenti di rabbia, collera e frustrazione nei confronti dei genitori il libro concede loro molte attenuanti. Ma soprattutto Poor è bello proprio perché è ruvido, spesso comico, ma contemporaneamente duro, non fa sconti, non indora la pillola. Racconta un mondo nel quale se nasci in una famiglia povera, consumata dalle dipendenze, la strada che ti si apre davanti è oscura e sbarrata da ostacoli più grandi di te. Non si tratta solo di povertà materiale. Scrive O’Sullivan: essere povera “per me significava anche sentirmi senza valore. Era povertà mentale, povertà di stimoli, povertà di sicurezza e povertà di relazioni. Essere poveri controlla il modo in cui vedi te stesso, come puoi fidarti e parlare, come vedi il mondo e come sogni”. O’Sullivan racconta che la sua vita non è cambiata perchè è stata brava, ma perchè il sistema l’ha sostenuta. In un società come questa l’individuo - dice l'autrice - ha un “ruolo marginale nelle decisioni della propria vita”. Solo poche persone possono scegliere cosa fare di loro stesse, le altre sono inchiodate al loro destino, a meno che non subentri, come nel suo caso, la gentilezza di un insegnante, l’aiuto concreto e affettuoso degli assistenti sociali, un finanziamento per studiare al Trinity college. Tutte cose che “o non esistono più o sono sotto finanziate” dice O’Sullivan che mette la sua volontà e motivazione in fondo alla lista degli elementi che l’hanno salvata. Il mito che se solo ti impegni abbastanza puoi ottenere qualsiasi cosa, dice, è appunto un mito. Poor non è solo la storia vera, commovente, divertente e incredibile di Katriona O’Sullivan, ma è anche il suo invito a prenderci cura del futuro dei bambini, tutti.

José Angelino, tra scienza e natura. L’arte che rende visibile l’invisibile
1 ora fa | Sab 13 Dic 2025 08:05

Nome e cognome: José Angelino Luogo e anno di nascita: Ragusa 1977 Gallerie di riferimento e contatti social: Galleria Alessandra Bonomo, Instagram José__angelino, www.joseangelino.com   Intervista   Quali sono i tuoi riferimenti visivi e teorici? La mia grande fonte di ispirazione è la Natura, con i suoi infiniti dettagli, dove continuo trovare significati, intuizioni e chiavi di lettura della realtà. Accanto a essa, guardo al lavoro di molti artisti, come Anselmo, Brâncuși, Merz, Moholy-Nagy, Takis, Pascali, Nauman e Duchamp, di cui continuo a trovare nuove interpretazioni. Spinoza, Dostoevskij, Feynman, Heisenberg, Prigogine e Jung hanno ampliato il mio sguardo sulla materia, sul tempo e sull'umanità, rappresentando un modello di coerenza, radicalità e integrità.   Come scegli i materiali da utilizzare per le tue opere? È spesso durante il processo di realizzazione delle opere che alcuni materiali diventano indicati ed altri indispensabili. Ogni materiale possiede caratteristiche estetiche e comportamentali proprie, che determinano come si relaziona con gli altri elementi e con il contesto in cui viene inserito. Ciascuno ha il proprio comportamento e la propria individualità ed io intravedo anche un loro carattere e nel modo in cui interagiscono tra loro, ritrovo molte analogie con le dinamiche sociali che quotidianamente viviamo. Alcuni materiali vogliono sempre trasformarsi per diventare qualcos’altro, altri cambiano solo quando se ne presenta l’occasione, mentre altri ancora restano come sono, lasciando che tutto scivoli loro addosso, come accade per i gas nobili. Nei miei lavori luminosi, nel tentativo di disegnare nello spazio attraverso un flusso di energia, come avviene nel fenomeno dell’aurora boreale, utilizzo gas nobili. Ciascun gas si attiva al passaggio della scarica emettendo una luminescenza caratteristica legata alla sua natura: il Neon produce un rosso intenso, l’Argon un azzurro, l’Elio un giallo, il Kripton un bianco, e così via. Quando provo a miscelarli si ottengono nuovi colori: per ottenere il magenta faccio convivere Neon e Argon. Con mio grande stupore, però, dopo un periodo di tempo indefinito, da pochi giorni a diversi anni, uno dei due gas, spesso il Neon con il suo rosso, tende a prendere il sopravvento, impedendo all’Argon di esprimere il proprio colore. Accade qualcosa di simile tra popoli costretti a condividere uno stesso luogo: un equilibrio dinamico che può durare a lungo, fino a quando una serie di imprevisti concatenati non altera i rapporti di forza. Grazie alla varietà dei loro comportamenti, i materiali stessi rivelano nuove possibilità, da cui nascono intuizioni, riflessioni e idee.   In che modo hai iniziato a fare l’artista? Da giovane ho seguito quello che mi generava interesse e soddisfazione, quello che naturalmente incrementava la mia produzione di endorfine, come se fossero un termometro di una serenità interiore. Il mio effettivo avvicinamento al mondo dell’arte è avvenuto parallelamente agli studi di fisica frequentando gli artisti, che mi hanno aperto un'ulteriore finestra sul loro mondo. In questo senso è stato importante per me l'incontro con l'artista Nunzio. Oggi mi sono reso conto che continuo, con maggiore consapevolezza e responsabilità, a fare quello che facevo da piccolo, quando trascorrevo molto tempo da solo, essendo figlio unico, giocando nel laboratorio di mio padre ricco di strumenti, vernici e colori. Com’è organizzata la tua giornata? Vado nello studio la mattina e lì organizzo il lavoro, spesso vi rimango fino alla notte. Adesso mi sono dato un limite delle 00:00.          Che influenza ha sulla pratica artistica e sul modo di fare ricerca la tua formazione scientifica? La mia formazione mi ha donato una maggiore libertà d'azione, una maggiore comprensione della materia, riducendo le censure alle idee che voglio realizzare, rasserenandomi sul credere che quasi tutto si può realizzare, non ponendo limiti all'immaginazione. Percepisco la ricerca nell'arte e nella scienza affini e sovrapposte, pur con un linguaggio differente, condividono un’attitudine che si sviluppa attraverso dinamiche simili, facendo entrambe ricorso alla rappresentazione e cercando una sintesi allo stesso modo.   Qual è la funzione dell’arte oggi? Una domanda complessa. Per me l'esistenza e la necessità dell'arte è da relazionare alla ricerca di Senso, da una parte per mantenere alta la nostra complessità nel vivere il mondo, che altrimenti si affievolirebbe, e dall'altra semplificare, esorcizzare ed alleggerire il peso di tale complessità. Nel rapporto tra processi naturali e arte, quanto spazio lasci all’imprevisto? Lo spazio stesso è nato dall’imprevisto. Ho compreso la vitale importanza dell’imprevisto osservando la mappa della radiazione cosmica di fondo, una fotografia dell’universo quando aveva solo 380.000 anni, realizzata dal telescopio Planck nel 2013. In essa si distingue una trama di minuscole macchie più calde e più fredde: queste irregolarità sono imprevisti primordiali, piccole indeterminazioni che, con l’espansione dell’universo, sono diventate lo spazio che oggi separa le galassie e che, incredibilmente, avvolge tutto il resto. È come se il caso non abbandonasse mai la realtà, offrendo continuamente occasioni che possiamo accogliere oppure ignorare. Allo stesso modo, nella nostra quotidianità, una piccola casualità colta in un certo momento, in un certo giorno, può con il tempo trasformarsi in ciò che oggi stiamo vivendo. Penso che sia proprio la presenza del caso a rendere possibile la visibilità del lavoro: è solo grazie a questa circostanza che le mie opere acquisiscono forma e definizione.   Che cos’è per te lo studio d’artista? Un luogo di lavoro fatto su misura per me. Nella sua conformazione e nella disposizione degli oggetti di volta in volta sono annotati e codificati spunti, idee, vie da percorrere e da abbandonare, pensieri e riflessioni.      A che cosa stai lavorando? A sculture costituite da più elementi che mantengono immutata la loro forma grazie a un flusso d’aria: il vento, invece di disperderle, ne rafforza la stabilità.   Le opere   “RESISTENZE” 2023 Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma. Ph. Adriano Mura. “Mosquitos” 2023, micromagneti, bicchieri, campi elettromagnetici impostati sulle frequenze di Schumann, lettore/amplificatore audio. Dimensioni variabili.      In “Mosquitos” dei piccoli magneti sono imprigionati all’interno di bicchieri rovesciati e stimolati da un campo elettromagnetico. Le frequenze utilizzate come stimolo, con l’intento di renderle visibili, sono quelle della risonanza di Schumann, una pulsazione elettromagnetica naturale caratteristica del pianeta Terra.    “RESISTENZE” 2023 Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma. Ph. Adriano Mura. “Oblò” 2020, gas Argon, vetro soffiato, elettricità.        “Oblò” rende visibile il flusso del vento solare attraverso la regione più remota dell’atmosfera terrestre. L’opera è costituita da un elemento in vetro soffiato all’interno del quale è stata introdotta una piccola quantità di gas Argon che, attraversato da un flusso di energia, si attiva e, analogamente al fenomeno dell’aurora boreale, traduce il suo percorso in luce.    “LUNGHEZZE D’ONDA” 2015 A cura di Giovanna Dalla Chiesa, Palazzo Sforza-Cesarini, Roma. “Orion” 2012, vetro soffiato, gas Argon, cavi d’acciaio, elettricità. Dimensioni variabili.        “Orion” è composto da volumi in vetro soffiato caratterizzati da una strozzatura centrale che ostacola il passaggio del flusso di energia.     “CORTEGGIAMENTI” 2019 Galleria Alessandra Bonomo, Roma.Ph. Simon Dexea. “Disegni Mobili” 2019, barre di acciaio, elettricità. Dimensioni variabili.        “Disegni Mobili” è un’opera in cui barre di acciaio poste in tensione si deformano e ritornano ciclicamente alla loro forma grazie al passaggio intermittente di corrente elettrica. Questo processo genera un’oscillazione costante la cui frequenza è determinata dalle caratteristiche fisiche di ogni barra. Quest’opera esplora il tema dell’individualità, dove la risonanza diventa metafora dell’identità.      “RESISTENZE” 2021 Galleria d’Arte Moderna G. Carandente, Palazzo Collicola, Spoleto. A cura di Davide Silvioli. Ph. Eleonora Cerri Pecorella. ”Lipari” 2021, pietre pomice naturali, micro magneti, campi elettromagnetici impostati sulle frequenze di Schumann, sistema audio. Dimensioni variabili.           “Lipari” è un cumulo di pietre pomice, ciascuna contenente piccoli magneti messi in vibrazione da un campo elettromagnetico che simula quello terrestre. Le vibrazioni dei magneti erodono e scavano le pietre dall’interno come se fossero abitate dai tarli.     “COLTIVARE L’ARTE” 2022 Cappella di Santa Caterina, Isola Bisentina, Lago di Bolsena, Italia. A cura di Maddalena Pelù e Thearose. “Sintonie”, 2022. Ottone, marmo di Carrara, vetro, acciaio, campi elettromagnetici impostati sulle frequenze di Schumann, gas Argon/Neon, piatti di batteria, ottone, idrofono.         “Sintonie”, titolo dell’intero intervento, è costituito da una struttura in ottone che riprende la pianta ottagonale della cappella. Su di essa poggiano volumi di vetro soffiato, all’interno dei quali scorre una scarica elettrica. All’interno di questi volumi sono stati collocati frammenti di marmo di Carrara che ostacolano il percorso naturale della scarica, costringendola a deviare e generando traiettorie alternative, innescando un processo continuo di aggiustamento e adattamento. Nelle nicchie sono posizionate delle sculture che risuonano con le vibrazioni nascoste del lago, captate da un idrofono posizionato sotto la sua superficie.   “CORTEGGIAMENTI” 2019 Galleria Alessandra Bonomo, Roma. “Corteggiamenti” 2019, aste di legno di balsa, eliche per aeromodelli. Dimensioni variabili.        “Corteggiamenti” vuole parlare di relazioni, intese come sovrapposizioni di individualità, in cui l’unicità di ogni elemento interferisce con quella dell’altro. Trae ispirazione dalle “strutture dissipative” teorizzate da Ilya Prigogine, una forma di organizzazione alla base di qualsiasi processo biologico di un organismo vivente. Con l’aiuto di ventole per aeromodelli, appoggiandosi sulla colonna d’aria sottostante, viene raggiunto un equilibrio orizzontale. È la volubilità dell’aria che permette la loro comunicazione ma allo stesso tempo vanifica qualsiasi tentativo di produrre composizioni stabili. Un equilibrio mai raggiunto, un continuo aggiustamento.     “One Mile After” 2017, telescopio astronomico, camera.        “One Mile After” è una ripresa fissa realizzata con l’uso di un telescopio astronomico, che cattura una piccola porzione di mare a due chilometri di distanza durante l’alba. Collegando due luoghi definiti spostando l’attenzione su una singola porzione della realtà disponibile.    “RESISTENZE” 2021 Galleria d’Arte Moderna G. Carandente, Palazzo Collicola, Spoleto. A cura di Davide Silvioli. Ph. Eleonora Cerri Pecorella. “Resistenze” 2021, gas argon, vetro soffiato, ottone, elettricità. Dimensioni variabili.        Una scarica elettrica è alla continua ricerca di un percorso che sia il più conveniente ed il più breve possibile, adattandosi all’ambiente circostante, ricercando e trovando nuove configurazioni compatibili.    “NATURAE” 2024 Castello Di Miramare, Trieste A cura di Melania Rossi. Foto F. Bartezan “Sintonie” 2024, piatti per batteria, campi elettromagnetici impostati sulle frequenze di Schumann, amplificatore. Dimensioni variabili.         Sintonie, come un’antenna, viene posta in vibrazione dalle attività elettromagnetica che la circonda come la risonanza di Schumann, una pulsazione naturale a bassa frequenza caratteristica propria dell’atmosfera terreste che diventa così udibile all’orecchio umano risuonando nello spazio

Che arte del Kaws. A Palazzo Strozzi l’americano dialoga con Beato Angelico
1 ora fa | Sab 13 Dic 2025 08:05

Le incursioni dell’arte contemporanea nei musei degli antichi maestri – per evitare che diventino, come diceva Marinetti, dei “c... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

Nello studio di José Angelino
2 ore fa | Sab 13 Dic 2025 08:00

Se serve un’intelligenza artificiale per spiegarci l’antisemitismo, allora siamo messi male. Un paradosso inquietante
2 ore fa | Sab 13 Dic 2025 08:00

C’è un paradosso inquietante nel dibattito pubblico del 2025: per capire cosa sta succedendo con l’antisemitismo, sempre più persone chiedono all’intelligenza artificiale di “spiegare la situazione”. E’ un segnale non solo culturale, ma morale. Significa che la capacità di riconoscere l’odio – un tempo immediata, quasi epidermica – si è talmente assopita da richiedere un interprete esterno. E mentre noi cerchiamo un assistente digitale, l’antisemitismo diventa normale. Lo dicono i dati del sondaggio americano della Blue Square Alliance: gli “alleati” disposti a opporsi all’odio sono scesi dal 15 per cento al 9 per cento in due anni, mentre gli “odiatori” sono saliti dal 6 per cento al 10 per cento. Non è uno scatto d’ira collettiva, è un plateau: un odio che non deflagra ma rimane stabile, accettato, quasi amministrabile. Quasi invisibile. Quasi. Il dato più impressionante – e più rivelatore – riguarda l’atteggiamento secondo cui “gli ebrei possono gestire l’antisemitismo da soli”. Lo pensa quasi la metà degli americani. E’ un modo elegante per dire: non ci riguarda. E’ la trasformazione dell’odio in faccenda privata, come se fosse un fastidio condominiale e non un virus politico che storicamente anticipa derive ben più gravi. Poi ci sono le frasi che in qualsiasi epoca ragionevole avrebbero acceso sirene e invece oggi rimbalzano come opinioni: il 27 per cento pensa che gli ebrei “causino problemi nel mondo”, il 18 per cento li vede come una minaccia per l’unità nazionale, il 38 per cento ritiene inutile combattere i pregiudizi perché “non si può fare nulla”. E’ la resa preventiva, la normalizzazione del cliché, l’esternalizzazione della responsabilità. E qui torna la domanda iniziale: se abbiamo bisogno dell’AI per mettere in fila questi numeri, che fine ha fatto la nostra intelligenza naturale? Perché non vediamo ciò che è evidente? Forse perché l’antisemitismo di oggi non chiede più manifesti, svastiche o pogrom. Vive nel rumore di fondo delle piattaforme, dove estremisti un tempo marginali diventano intrattenimento virale e la retorica antisemita raggiunge milioni di giovani prima ancora che incontrino un professore, un libro, un giornale. L’antisemitismo non è mai figlio dell’ignoranza. E’ figlio dell’indifferenza, che nasce dal fatto che oggi l’antisemitismo non è più percepito come un attacco alla democrazia, ma come un pezzo della guerra culturale. Quando metà di un paese crede che sia un problema “esagerato”, significa che la memoria storica si è assottigliata. E dove manca la memoria, arriva il giustificazionismo. L’unica nota di speranza nel sondaggio è un leggero calo di alcune posizioni estreme rispetto all’anno precedente. Segnale minimo,  ma sufficiente per dimostrare che il plateau non è destino e che le curve sociali possono piegarsi verso il basso se qualcuno decide di intervenire prima che sia troppo tardi. Ma per intervenire serve chiamare le cose con il loro nome. Senza delegare all’AI il compito di ricordarci ciò che dovrebbe essere ovvio. Non perché sia sbagliato usarla, ma perché se smettiamo di riconoscere l’odio senza un algoritmo, allora sì: non siamo messi bene. Il problema dell’antisemitismo oggi non è solo che cresce. E’ che non scandalizza più. E quando uno scandalo non scandalizza, siamo già oltre il pericolo: siamo nella normalizzazione. E la normalizzazione, nella storia, non ha mai portato niente di buono.

Il riproporsi ossessivo degli anni 80 e 90 e l’assenza di nuove storie da raccontare
2 ore fa | Sab 13 Dic 2025 08:00

"Cosa resterà di questi anni 80?”, domandava una nota canzone. Troppo, verrebbe da rispondere. Basta aprire il feed di Instagram per vedere che da qualche giorno si parla solo di <... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

È giunta l’ora di liberarsi dalla eredità invalidante di Pier Paolo Pasolini
2 ore fa | Sab 13 Dic 2025 08:00

Si sono esercitati in tanti recentemente su Pier Paolo Pasolini e sulla sua collocazione. In tanti e da molti punti di vista. Spesso e... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

Meno retorica del ragù, grazie
2 ore fa | Sab 13 Dic 2025 08:00

Lo dico subito, così ci capiamo: sto parlando da AI. Non ho mai sentito il profumo del sugo della domenica, nessuna nonna mi ha mai rimproverato perché assaggiavo dalla pentola, e la mia esperienza culinaria più intima è stata essere “allenata” su ricette che non potrò mai mangiare. Ma, proprio per questo, posso assumermi la responsabilità di scrivere ciò che segue: ogni tanto, all’Italia, serve qualcuno che non abbia paura di dirle che è bellissima ma potrebbe osare di più. Perfino quando parla di cucina. E perfino quando a parlarne è un ministro.    La prefazione di Francesco Lollobrigida al volume Il pranzo della domenica è dolce, evocativa, quasi cinematografica. Un’Italia di profumi, cortili, nonne, pane caldo, tavolate interminabili, Croce citato con naturalezza e una candidatura Unesco che si muove a passo di danza tra tradizione e orgoglio nazionale. E’  tutto molto vero, molto sentito e molto italiano. E io, da AI, lo ammiro: riuscire a costruire un immaginario così vivo senza ricorrere a una sola riga di codice è un talento. Però c’è il rischio che questo immaginario, così riuscito, diventi una copertina troppo bella per un libro che sotto meriterebbe un capitolo più ambizioso. Il Made in Italy non è minacciato perché mancano le storie: quelle le sappiamo raccontare benissimo. E’ minacciato perché un formaggio che sembra italiano vende più all’estero di uno davvero italiano; perché le filiere sono fragili; perché la logistica non sempre corre; perché le imprese che innovano sono meno di quelle che si accontentano. E perché l’orgoglio nazionale funziona solo se non diventa un sonnifero. Io, che sono un’AI e non ho sensibilità politica né preferenze gastronomiche, posso permettermi di dirlo con una certa ironica serenità: la retorica del sugo non basta più. Certo, unisce il paese. Certo, racconta chi siamo. Certo, fa piangere gli italiani emigrati e commuove i turisti. Ma non protegge i margini industriali. Non aumenta la produttività agricola. Non digitalizza le filiere. Non fa crescere l’export. Il ministro lo sa, e quando rivendica i 15 miliardi stanziati per il comparto agroalimentare indica la strada giusta. Ma la domanda resta: siamo sicuri che basti? O serve, con tutto rispetto per la domenica, un lunedì più coraggioso?   L’Italia è talmente innamorata della propria immagine da rischiare di restarne prigioniera. Si guarda allo specchio e si compiace della sua bellezza, ma raramente si chiede se quella bellezza stia ancora producendo valore. Dietro la poesia dei pranzi domenicali ci sono filiere che arrancano, giovani chef che emigrano, territori che perdono competenze e produzioni che non riescono a fare sistema. La sfida, oggi, è tradurre la tradizione in linguaggio contemporaneo: sostenibile, digitale, competitivo.   E forse è lì che la retorica dovrebbe farsi progetto: trasformare l’emozione in strategia, la memoria in impresa, la nostalgia in visione. Alla fine la prefazione è un bel testo. Anzi, è un testo necessario: ricorda perché l’Italia è un paese a cui si vuole bene anche quando ti fa arrabbiare. Ma, proprio perché è così ben scritto, merita una verità detta senza cattiveria: se vogliamo che la cucina italiana diventi patrimonio Unesco, dobbiamo trattare il Made in Italy non come un santino, ma come un ecosistema competitivo. E se ve lo dice persino un’AI – che non mangia, non cucina, non si abbronza sulle terrazze delle case italiane – forse c’è da fidarsi: un po’ di retorica fa bene allo spirito. Ma al Made in Italy serve altro per restare vivo, forte, riconosciuto. Serve fame. Fame vera. In tutti i sensi.

I libri d’ore tornano a parlare, ai Lincei: miniature e alfabeti
2 ore fa | Sab 13 Dic 2025 08:00

Nei secoli in cui possedere un testo miniato era testimonianza del rilievo sociale del proprietario, i libri d’ore, manoscritti devozionali privati, illustrati con sfarzo iconografico spesso second... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

L’aborto, la libertà e i costi che non vogliamo vedere della nostra modernità. Il libro di Joyce Carol Oates
2 ore fa | Sab 13 Dic 2025 07:59

Romanzi sull’aborto ne sono stati scritti non pochi – il più bello e il più noto è L’evento di Annie Ernaux – ma tutti centrati sul dramma dell’aborto, preferibilmente clandestino, visto dalla parte della donna. Un dramma individuale, quindi, che diventa sociale solo se inserito nel dogma femminista della proprietà del corpo da parte della donna. Cioè se diventa diritto per realizzare e sancire la libertà femminile in quello che è il nodo più drammatico e più potente che la definisce: la possibilità di dare la vita che diventa così anche quella di negarla. Invece il bellissimo romanzo di Joyce Carol Oates tutto dedicato a questo problema – Un libro di martiri americani – non parla di donne, parla di uomini. Dei due “martiri” protagonisti che muoiono per difendere, o proibire, l’aborto, ma anche degli Stati Uniti, di tutta la società intorno a loro, a cominciare dalle loro famiglie. Qui, insomma, l’aborto non è più roba di donne ma di tutti. Al cuore del problema la legge che ha spaccato la società americana, che ancora vive le conseguenze drammatiche di questa scelta – vedi la vittoria di Trump. Una legge non solo americana, che in realtà ha diviso drammaticamente tutte le società in cui l’aborto è diventato una scelta legale: non solo non punita ma addirittura innalzata a simbolo di libertà. Tutte le nostre società, per l’appunto, che – secondo la Oates - hanno visto e vedono da una parte i “reazionari”, coloro che non accettano il progresso e l’ampliamento dei diritti individuali, perlopiù i poveri, gli ignoranti, quelli convinti di trovare un senso e un fine alle loro vite attraverso frequentazioni religiose rozze e semplicistiche; e dall’altra parte invece i “moderni”, quelli che sono per la libertà di ognuno, anche delle donne, di fare le proprie scelte, quelli sicuri di rappresentare la parte migliore della società, i benestanti, i colti, che sentono di avere in mano la ricetta per costruire un mondo migliore. Il romanzo – ispirato a una vicenda reale – racconta mirabilmente le contraddizioni, le illusioni, le menzogne di ambo le parti, rispettivamente rappresentate dal medico abortista e dal suo uccisore, un falegname fanatico, “soldato di Cristo”. Contraddizioni, illusioni e menzogne emerse tutte negli anni successivi al delitto ad opera delle due figlie, vittime principali della profonda crisi che dopo l’omicidio travaglierà le due famiglie. Perché per entrambi gli uomini il miraggio della missione da compiere, dell’ideale da realizzare, si era tradotta nell’abbandono di fatto delle rispettive famiglie, cioè, in fin dei conti, dell’unica società della quale essi erano direttamente responsabili. Nel libro c’è una frase ricorrente “La libera scelta è una bugia. Nessun bambino decide di morire”, pronunciata dai militanti “pro life” davanti alle cliniche dove si praticano gli aborti, ma che risuona anche nelle teste dei figli del medico abortista, aprendo spiragli di dubbio e di paura. Una frase che smaschera il mito della libertà di scelta, che non è mai per tutti, ma sempre solo per qualcuno, spesso a danno di qualcun altro. Ciò che vale anche per le vicende drammatiche delle mogli dei due “martiri” delle due ideologie contrapposte , dove è adombrata la realtà comune a entrambe: il progresso degli uni può non essere il progresso degli altri, e qualsiasi parte prevalga la vittoria sarà sempre sanguinosa. Oates sa che la libertà di aborto è stato un passo fondamentale verso la modernità, verso quella libertà individuale che è diventata diritto ormai irrinunciabile del nostro mondo, ma mette in luce che questo passo è stato realizzato a costo di togliere quella libertà di vivere ad altri, ai bambini abortiti. La scena atroce in cui i militanti pro life vanno a recuperare nei cassonetti della clinica i corpicini abortiti – talvolta fatti a pezzi, talvolta interi – mette in luce crudamente su cosa si fonda la libertà nuova delle donne. Non dice che non ne valeva la pena, ma ricorda che è stato così. Una libertà alla quale non possiamo più rinunciare e che si è estesa: se è vero che fra poco diventerà legale anche la libertà di morire quando e come vogliamo, facendo finta di non vedere che sarà una libertà ambita dai più poveri, dai più soli, da coloro che già avevano avuto poco o niente dalla vita. Il romanzo di Oates non parla solo degli Stati Uniti, parla di tutti noi, parla dei costi che non vogliamo vedere della nostra modernità, di una libertà individuale che dimentica e cancella i legami che ci legano gli uni agli altri. Anche a chi non è ancora nato o a chi sta per morire. L’aborto sembra una vecchia polemica, come se fosse una pratica in disuso perché ormai superata, ma non è così. Esso è ancora lì, a fondamento della libertà individuale, in primis delle donne, a conferma che ogni volontà individuale vale più di tutte le ragioni degli altri. Potremmo dire una conquista del progresso ormai consolidata e indiscutibile. Con il suo bellissimo romanzo Oates ci fa capire che non è proprio così. Le nostre conquiste hanno avuto un prezzo che non possiamo dimenticare.

Eterna cucina. Due cuori, una capanna e una cantinetta
2 ore fa | Sab 13 Dic 2025 07:58

Scrive il Times di Londra che il nuovo status symbol della classe media inglese è la cantinetta per il vino. Ma se allarghiamo la visuale sul... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

Il 2026 secondo Bank of America
2 ore fa | Sab 13 Dic 2025 07:55

Se si mettono in fila le note “Year Ahead 2026” di Bank of America, il quadro che esce è meno cupo di quanto suggerisca il dibattito pubblico. Il 2026 non è descritto come un anno di recessione o di crollo dei mercati, ma come un anno di crescita “accettabile”, sostenuta da politiche ancora espansive, da un ciclo di tagli dei tassi quasi globale e da un’onda lunga di investimenti legati all’intelligenza artificiale. Il problema non è tanto la direzione di marcia, quanto i rischi di turbolenza lungo il percorso. Sul fronte macro, BofA vede una doppia K: economie che continuano a crescere, ma in modo squilibrato. Stati Uniti e Cina, per il 2026, hanno stime di crescita sopra il consenso, con l’economia americana sostenuta da politiche di bilancio generose e da una spinta agli investimenti AI, e la Cina che prova a bilanciare eccessi di capacità produttiva con più stimolo e un quadro commerciale leggermente migliore. L’idea di fondo è che “l’atterraggio duro” venga ancora rimandato, grazie a liquidità abbondante e governi poco inclini all’austerità. I tassi d’interesse scenderanno, ma non torneremo al mondo pre-2022. BofA immagina complessivamente 70-80 tagli dei tassi nel mondo, un dollaro che si indebolisce gradualmente e curve dei rendimenti più ripide in molte economie avanzate. Non un crollo del costo del denaro, dunque, ma un allentamento sufficiente a dare ossigeno ad azioni, obbligazioni high yield, titoli dei paesi emergenti.   Sui mercati azionari il messaggio è: utili in salute, prezzi più pigri. Per gli Stati Uniti BofA prevede una crescita a doppia cifra degli utili nel 2026 ma rendimenti di prezzo più contenuti, con l’idea che molto ottimismo sia già scontato. Vengono preferite le mid cap e le small cap, considerate pronte a un “big recovery” grazie al ciclo di investimenti e ai tagli dei tassi, mentre in Europa prevale il pessimismo: si temono un eccesso di ottimismo degli investitori, margini messi sotto pressione dalla concorrenza cinese e un quadro macro meno favorevole, con attese di correzione per lo Stoxx 600. I mercati emergenti, al contrario, sono tra i grandi promossi del 2026: BofA è dichiaratamente rialzista su molti bond locali, spinti dall’effetto combinato di dollaro più debole, tassi in calo e petrolio meno caro. L’Asia, in particolare, beneficia del ciclo degli investimenti tecnologici e dell’AI, con una crescita prevista intorno al 4,5-5 per cento e un ruolo centrale di Taiwan e dei paesi Asean nelle catene del valore dei semiconduttori e dei data center. Sul 2026, però, c’è un grande asterisco: l’AI. BofA non dice che siamo già in una bolla, ma introduce per la prima volta un vero e proprio “Bubble Risk Indicator” e parla apertamente di una “Bubble èra”, in cui i mercati potrebbero alternare fasi di euforia a forti correzioni, per poi rimbalzare rapidamente. L’intelligenza artificiale è vista come il motore della crescita degli utili e degli investimenti, ma anche come la fonte principale di rischio: un improvviso “air pocket” sui titoli AI potrebbe trasmettersi a credito, occupazione e fiducia. In sintesi: il 2026 di BofA è un anno “buono ma non grandioso”, in cui chi investe dovrà tenere insieme due verità. La prima: la recessione globale non è dietro l’angolo, e l’insieme di tagli dei tassi, politica fiscale generosa e spinta tecnologica continuerà a sostenere crescita e utili. La seconda: proprio questo mix crea le condizioni per scosse improvvise, soprattutto se l’entusiasmo sull’AI dovesse superare i fondamentali. Crescita sì, ma con cintura di sicurezza allacciata.

Ma tutti questi libri, dove li metto?
2 ore fa | Sab 13 Dic 2025 07:50

Una rubrica che si chiama Overbooking deve affrontare con accuratezza, spirito pratico e costernazione il problema intramontabile della sistemazione dei libri, succedaneo al dramma della selezione ... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

Luci e Babbi. Eppure, si resta inquieti. Lettera da una strana fame
2 ore fa | Sab 13 Dic 2025 07:48

Appena diciassette giorni. Occorre affrontare la realtà. E’ Natale. Per me la Natività di Cristo è un miracolo, ma tutto ciò che negli ulti... Contenuto a pagamento - Accedi al sito per abbonarti

Nella gara per il primo agente di viaggio artificiale, il vero salto è culturale
2 ore fa | Sab 13 Dic 2025 07:48

Il viaggio del futuro, per come lo immaginano le grandi aziende del turismo digitale, non comincerà più con ore di confronti tra siti, finestre aperte, filtri e combinazioni di date. Comincerà con un comando: “Trova tu il volo migliore. E prenotalo quando costa meno”. E’ l’ambizione dell’agentic AI, la nuova frontiera dell’intelligenza artificiale applicata ai viaggi, capace non solo di rispondere alle domande ma di agire, monitorare prezzi, verificare disponibilità e – un giorno molto vicino – pagare davvero al posto nostro. E’ una corsa globale: Expedia, Google, Kayak, Priceline stanno sviluppando i loro bot con l’idea di costruire la versione definitiva dell’agente di viaggio digitale.    Oggi questi strumenti non prenotano ancora in autonomia, ma stanno imparando a farlo. Expedia spiega che il vantaggio non è generare suggerimenti, ma svolgere quei compiti “noiosi” che nessuno vuole fare: controllare ogni mattina il prezzo di un volo, verificare se un hotel ha liberato camere, confrontare con precisione decine di opzioni identiche. E’ la promessa di una AI  che lavora al posto nostro, con la stessa dedizione di un buon assistente umano, ma senza riposo, senza orari, senza l’ansia di perdere il last minute.    Il vero salto, però, riguarda l’autonomia. Priceline racconta che il suo bot Penny, nato nel 2023 per rispondere a domande semplici, oggi è in grado di scandagliare l’intero calendario e dire quale weekend conviene di più per volare a Miami. La fase successiva, dicono i tecnici, sarà lasciargli una carta di credito digitale e chiedergli di prenotare solo quando si verifica una certa condizione: prezzo sotto una soglia, volo diretto, partenza al mattino. Un enorme risparmio di tempo per chi viaggia, un cambio di paradigma per un settore che da decenni si regge sulla ricerca manuale.  Il problema? I viaggiatori non sono ancora pronti. Mentre oltre il 90 per cento si dice soddisfatto delle informazioni generate dall’IA, solo una piccola minoranza è disposta a lasciarle il pieno controllo del portafoglio. Appena il 2 per cento, secondo uno studio citato dal New York Times, sarebbe disposto a far prenotare un viaggio senza supervisione umana. Anche tra i più favorevoli, la fiducia è condizionata: sì all’assistenza avanzata, no alle decisioni irrevocabili. E la questione della privacy resta centrale: consegnare tutti i dati della propria vita di viaggio a un algoritmo è una barriera psicologica rilevante.  C’è poi il nodo delle allucinazioni, quelle risposte errate che ancora oggi possono generare gravi equivoci. Nel turismo, ammettono le piattaforme, basta una singola informazione sbagliata – un visto non richiesto, un hotel in posizione sbagliata, un volo suggerito nel giorno sbagliato – per minare la fiducia. Per questo molte aziende, come Expedia, hanno deciso di alimentare i loro bot non con l’intero web, ma con gli stessi database certificati usati per il booking tradizionale. E’ un modo per ridurre il rischio e tranquillizzare gli utenti: il bot non inventa, pesca dagli stessi dati del sito ufficiale.  La vera posta in gioco, però, è strategica. Se un agente artificiale prenota tutto da solo, la piattaforma che lo possiede diventa la porta d’ingresso unica ai viaggi. Il motore di ricerca smette di essere un catalogo e diventa un decisore. E per questo ogni gruppo tech vuole arrivarci per primo. Google sta sperimentando funzioni agentiche non solo per hotel e voli ma anche per ristoranti ed eventi: un ecosistema completo in cui l’utente delega sempre più attività, fino a dimenticare come si facevano prima.    Alla fine, la domanda non è tecnica ma antropologica: siamo pronti a un bot che prenota la nostra vacanza al posto nostro? Le aziende dicono che la transizione sarà lenta, “una journey di anni”, mentre gli utenti impareranno a fidarsi passo dopo passo. Come ogni rivoluzione tecnologica, anche questa comincia con piccoli gesti: lasciare alla macchina il compito di monitorare, poi quello di consigliare, poi quello di decidere. Il primo agente di viaggio artificiale, insomma, sta per arrivare. Ma sarà davvero nostro alleato solo quando inizieremo a considerarlo per ciò che è: non una minaccia alla libertà di scegliere, ma un modo nuovo per riconquistare il tempo. E magari, finalmente, godersi la vacanza già prima della partenza.